27 novembre 2011

- La Loggia come Agorà

Può sembrare risibile, nell’epoca attuale, che qualcuno definì “eticamente neutra”, richiamare l’immagine dell’Agorà ateniese; se non addirittura provocatorio e offensivo, per un’Europa che vive la sua crisi senza sbocco, che è crisi di Valori e quindi di identità. Valori filtrati da troppi nazionalismi, tali che sfugge l’idea di “Patria Europea”, fra le mine vaganti degli “ismi”, diaframmi spessi che ne impediscono l’approdo presso i popoli. Valori adottati, ma non “adattati”, quindi non riconosciuti, non accolti, non socializzati, non condivisi, non partecipati, in breve non storicizzati; memorie di un ieri lontano e diverso, che nulla dicono all’uomo d’oggi, salvo che prestarsi all’uso strumentale della retorica. E siccome ogni epoca forma ed è formata dai suoi contemporanei, la diaspora etica dell’Occidente non può non ripercuotersi, pesantemente, anche in quella che è la punta avanzata dei suoi fondamenti, morali ed esoterici, la Massoneria del postmoderno, appunto. Che senso ha allora riesumare la polvere dell’Agorà e accostarla al luogo dove i F.lli s’incontrano, se non chiaramente provocatorio?
Nessun senso, se non abbiamo l’agilità che ci consenta di “uscire” dal contingente, secondo la metodica pesantezza di una consuetudine adattativa ereditata per pigrizia, che ci porta a credere che “si sta bene così”. Un senso ampio e profondo, se serbiamo un barlume di memoria di chi fummo e conseguentemente di chi siamo chiamati ad essere, nell’ambito di una continuità metafisica che non conosce il logorio del tempo, né i limiti dello spazio. Nel caso che scegliamo di compiere il salto, l’invito è a percorrere un breve tratto, che potrebbe dirsi contemporaneamente archeologico, etico, artistico, filosofico e – perché no? – religioso.
Non i fantasmi, ma le evidenze di una trasmissione antica rimasta inalterata nell’ambito dell’Ordine Massonico appariranno senza sforzo, al massimo, retrodatando la nostra età anagrafica. Si discuterà, si scriverà sempre, sulle origini presunte della Libera Muratoria, sulla sua filiazione, vera o presunta dai Templari, o dagli Egizi e oltre, secondo le teorie del grande Lessing. Un Valore non nasce con la sua presa in considerazione, né nel suo momento applicativo: la sua natura è preveniente e latente nei Sentimenti condivisi anche di epoca arcaica. Tale è la natura dell’Archetipo.
Così, ad esempio, in epoca Carolingia, per l’affermazione di una “chevalerie”, che implicava i valori morali di pietà, di lealtà, di giustizia, su una preesistente “cavalerie”, arte della guerra equestre, comprensiva di razzia, saccheggio e tortura. Quei valori c’erano già, come le leggi astronomiche dell’Universo, che precedono la loro scoperta da parte dei fisici. Per certo, nel corredo simbolico ai suoi Rituali, ove nulla è lasciato al caso e persino le sfumature hanno spessore e sottendono ulteriori significati, la Libera Muratorìa ha inserito riferimenti espliciti all’Ethos della Grecia di Pericle, intorno al V secolo a.C.
La Grecia classica
La Grecia antica è una melagrana composita, articolata, un sistema intricato di libertà e schiavitù, pace e guerra, filosofia e metafisica, arte e matematica, espresse ai massimi livelli, tale che anche il passo pesante delle legioni romane ne fu irretito. Ma l’Epoca classica fu soprattutto Atene che, grazie a Pericle, conobbe un tempo mai più ripetuto, in cui La Bellezza, la Forza e la Sapienza, furono insieme la sostanza e la manifestazione non di una oligarchia o di qualche privilegiata aristocrazia, ma del “demos”, dèmos, di tutto il popolo, che partecipò attivamente e si riconobbe nella sua cultura, della quale, tutt’ora, l’Occidente è pervaso.
Tutti i cittadini della città-stato avevano gli stessi diritti e doveri.
Liberamente e pubblicamente eleggevano i propri magistrati, ai migliori dei quali si ergevano sculture, ma solo da morti, ad evitare il culto della persona e il rischio della tirannide. Ancora oggi, la collina dell’Acropoli, pur senza la fantasmagoria di colori che l’abbellivano ai tempi di Pericle, è l’iperbole della ricerca della Perfezione, da cui nacque il concetto di “Classico”. I riferimenti estetici sono appena accennati, perché quel che importa, al fine dell’analogia, è la “sostanza”, la “palpitazione” del Simbolo di una civiltà che non ebbe confronti, a cui è appena accostabile la Firenze del Rinascimento.
Pochi i dettagli, ma significativi, riferiti alla magnificenza del Partenone, tempio dedicato ad Atena Parthenos (cioè vergine). Si racconta di una statua della dea alta 12 metri, ad opera del grande Fidia, in oro e avorio, poi scomparsa e ricordata da una modesta copia in scala ridotta, oggi, al Museo Nazionale. Questo richiamo solo per evidenziare la geniale intuizione di Pericle nell’aver concepito e realizzato in Atene il punto d’incontro fra l’umano e il divino.
La Grandezza, la Bellezza, la Forza, che a noi ancora perviene, non fu quella delle statue e dei monumenti, bensì quella dei VALORI , religiosi, civili, comportamentali. L’humus radicato e attecchito della prima grande idea di Democrazia, in cui umani e divini condividevano l’impronta della Vita. Non durerà a lungo, perché, scomparso Pericle, il suo successore, Alcibiade, introduce pesantemente il culto della personalità, e tutto cambia.
Ma nel V secolo era nato uno spazio, nella parte bassa di Atene, dove il popolo fu davvero sovrano: l’Agorà. L’Agorà era il luogo in cui si esercitava la democrazia, non la perfezione. Era l’ambito in cui il rapporto duale fra il “bianco” ed il “nero” tentava una sintesi. Era la grande piazza in cui Socrate insegnava e in cui fu condannato a morte. È utile ricordare che Socrate è morto per la Legge, non per la Giustizia. Per la Giustizia Socrate non sarebbe morto, anche se proprio l’applicazione della legge ne ha sancito l’immortalità. Personaggio controverso e scomodo, come tutti gli uomini veramente liberi (la “Vespa”), fu anche ottimo combattente. Si racconta che riuscisse a dormire in piedi, negli intervalli della battaglia, appoggiato alla sua lancia e i nemici, che lo riconoscevano, ne rispettassero la grandezza. “è Socrate”, si bisbigliava e nessuno osava ferirlo. Ma in quel luogo si tentava il salto verso l’Etica.
Il popolo, di buon grado, si riconosceva nell’
Isonomìa”, uguaglianza di fronte alle leggi,
Isegorìa”, uguaglianza nel diritto alla parola,
Isokratèia”, uguaglianza nell’esercizio del potere.
Gli eroi che vegliavano sulla Polis erano accostati agli dei e con essi figuravano sul Partenone. Insieme costituivano la forza della Legge, espressione della collettività, che quasi superava la devozione al divino. Alla morte di Pericle, la guerra del Peloponneso stende una caligine progressiva sulla massima espressione dell’Arte elevata a Regola Democratica nella vita pubblica e privata di Atene. Niente sarà mai più come prima, ma ciò che è stato non può cancellarsi, perché oltre il tempo, fu costruito sulla percezione e la spinta della Trascendenza.
Oggi come ieri
Non c’è altro periodo, nella storia dell’umanità, che possa rapportarsi, per quanto riguarda l’Occidente, in linea così diretta con la filosofia antropologica della Massoneria, che la Grecia di Pericle, in quel lontano V secolo a. C. Definita anche l’arte delle arti o Arte Reale, la Libera Muratoria fu invisa, sin dalle origini, a tutti i potentati, religiosi e civili, perché, proclamando la libertà individuale come base del confronto democratico, invertiva la rotta univoca di ogni potere costituito. A ben guardare, l’ammettere e l’applicare tale libertà crea una breccia attraverso cui passano carovane di possibilità, molte delle quali presentano l’asperità degli imprevisti. Data la regola, infatti, difficile è codificarne e limitarne l’interpretazione, circoscritto ciascuno all’ambito ristretto del proprio punto di vista. In certa misura è inevitabile l’intervento “automatico” del principio di “tolleranza”, in quanto una ipotetica libertà va necessariamente applicata verso se stessi: libertà dal proprio Ego e quindi condizione di disponibilità al Dubbio e ad accettare come possibile un altro punto di vista. Da fattori così apparentemente minimi, si sviluppa una sorta di “progressione esponenziale”, per cui
una Loggia non è più definibile come la somma dei suoi singoli membri, ma è molto più: è un Organismo a se stante, che ha un suo battito e una cadenza cardiaci.
È un luogo dello Spirito dove la diversità è un’acqua benefica per la sete di conoscenza di ciascuno.
Un luogo dove si impara l’uso della Parola come semplice veicolo del proprio pensiero, mezzo per comunicare e non per convincere di alcunché.
Un luogo in cui si aprono e si chiudono i nostri Lavori, alla presenza di Simboli che meriterebbero, forse una maggiore considerazione e approfondimento, secondo l’auspicio delle tre Luci: “l’illuminazione della sapienza” (Pallade Atena), la presenza della “Bellezza” (Afrodite) e della “Forza” (Eracle).
E qui comincian le dolenti note…
Nel senso che si è necessariamente costretti a prendere atto di quanto si navighi in superficie intorno ai Rituali a partire dal 1° Grado della Camera di Apprendista. A fronte della mole di testi che analizzano, spiegano, scavano, intorno alla filiazione Giudaica della Libera Muratoria, quasi nulla emerge (con poche autorevoli eccezioni: Pike, Reghini, Porciatti e più recentemente Alberto Cesare Ambesi) nella divulgazione contemporanea, circa la Tradizione Greco-Romana, di cui la Massoneria latina è portatrice da sempre.
Maggiormente grave, in una fase storica di regressione per l’Occidente.
Visti da vicino, i simboli di Minerva-Atena, Venere-Afrodite, Ercole-Eracle, sono tutt’altro che semplicemente allegorici.
Per la Massoneria delle origini, la Saggezza, la Bellezza e la Forza, loro attribuite, erano i pilastri della Loggia, e non princìpi invocati dalle tre Luci.
Erano i cardini Spirituali ed Etici intorno a cui ruotava il Lavoro degli Iniziati.
Oggi questo è semplicemente scomparso, nella sua sostanza; inciampiamo su tre allegorie, in apertura, catalogabili fra le “romanticherie”. Ciò in conseguenza di un automatismo di trasmissione, nel tempo, dei riti, come fatti puramente cerimoniali, mentre
SI CONTINUA a VAGHEGGIARE di “ AMPI ORIZZONTI ”, in altre CAMERE o altri GRADI.
Sarebbe urgente il recupero, lo studio e l’approfondimento di tutta la simbologia, non limitandosi all’esaltazione della buona convivenza e della tolleranza, con cui, da parte di molti, si ritiene raggiunto lo scopo.
Il Mito ci parla
Intanto, c’è da dire che nel Tempio Massonico è presente l’archetipo del femminile, attraverso le due divinità Minerva e Venere, unitamente a quello maschile di Ercole. A significare che la “perfezione” ricercata nello svolgimento del Lavoro, passa inevitabilmente attraverso l’equilibrio, l’armonia, di tali forze congiunte. Si può discutere sulla capacità evocatrice, ma ciò dipende da quanto siamo coinvolti mentalmente e sentimentalmente, già dal momento in cui il Maestro delle Cerimonie traccia il quadro di Loggia, segni e cifre che evocano entità.
Tale è ogni Rituale: un insieme di invocazioni-evocazioni tendenti a produrre la Vibrazione, che la si percepisca o meno.
Né ci sarebbe da stupirsi di trovare la menorah accanto alla statuaria greco-romana, se si rammentano e si distinguono i tre filoni portanti: l’ebraico-alessandrino, il pitagorico-pagano e il cristiano-cavalleresco.
Alla base della apparente complessità, c’è la semplicità di un percorso costante, che il tempo e le culture hanno reso articolato, ma in questo risiede la nostra “diversità”. Fra i simboli del Tempio, Minerva-Atena è all’Oriente. Nelle Obbedienze latine, rappresenta la Saggezza (sullo scranno del MV è infatti presente una colonnina dorica, definita “colonna della Saggezza”). È un simbolo “pulsante”, senza la cui irradiazione nulla potrebbe svolgersi.
Una “Sapienza armata”. Atena nacque, secondo il mito, con le armi in pugno, dalla testa di Zeus. E’ sì guerriera, ma senza la crudeltà di Marte; ha un suo “stile” che la rende inconfondibile e l’avvicina al “mentale” dell’uomo. Lo dice la radice del suo nome, Minerva, con antichi riferimenti sia alla Luna che alla “mente” (in sanscrito “manas”, in latino “mens”, in inglese “mind”).
Protettrice delle città, operatrice di giustizia, ispiratrice della Filosofia, sostenitrice del lavoro artigiano (la più grande nave dell’antichità, l’Argo, fu costruita sotto la sua direzione, si racconta). In questa veste, attiva e operante, concretizza l’Archetipo fondamentale, in Loggia. E mentalmente, non possiamo che ritrovarla, nella Cattedrale gotica di Notre Dame de Paris, in un bassorilievo dedicato all’Alkimia, esotericamente chiamata “Theos-Sophia”, la sapienza mistica ed esoterica, seduta sul trono dell’Altissimo a rappresentare la Shekinah, o parte immanente e femminile del Dio assoluto e trascendente; la Grande Madre delle culture “primitive”; l’Eterno femminino, la Madre senza nome degli Gnostici; la “Bianca Signora”.
Altro che allegoria!
Né si può sottacere il canone della Bellezza di Venere-Afrodite, così lontano dal nostro stereotipo dell’immagine consumistica. La bellezza afroditica è rapportabile ad uno “stato di grazia interiore”, a una modalità del femminile diversa dalla precedente dea. Rappresenta la seduzione della solarità, la fecondità dell’amore, del riso e della Gioia, elemento tanto invocato in Loggia, quanto chimerico e irraggiungibile, se non si sa spiccare il volo verso un’altra dimensione, che sta, inevitabilmente più in alto.
Ercole, dio della forza e del coraggio, non casualmente appoggiato alla sua clava e parzialmente coperto da una pelle di leone, ancora non a caso, a significare la vittoria del “Sé” sulla componente animale dell’uomo.
Memorabili le sue dodici Fatiche, una delle quali, la X, ce lo rende particolarmente vicino, quasi un Massone ante litteram. Nella X Fatica, dopo un lungo viaggio per mare, giunge a Tartesso, dove erige due Colonne, per limitarne lo stretto e poi prosegue per Gades, sperduta isoletta in mezzo al mare. Queste colonne erette in prossimità della biblica Tarsis, a separare il mondo dei viventi dalle isole occidentali dei morti, sono ricordate anche da Dante come landmarks, limite destinato a perdurare nel tempo, come vero e proprio tabù: “Le colonne d’Ercole”, fino alla scoperta dell’America. Ercole gettò le due colonne, al ritorno dalla Libia, per proteggere il suo mare, il Mediterraneo, da eventuali mostri che potevano arrivare dall’oceano. Quelle due colonne le ritroviamo nel Tempio, a proteggere la sua Sacralità dalla profanità circostante. Non è una forzatura né una “spiritosa invenzione”, se un Massone della levatura del Porciatti le pone direttamente in relazione con quelle “Conosciute nell’antichità come Colonne di Melquart o di Ercole, quale limite oltre il quale muore lo spirito umano”.
Poche righe, per concludere
Confido che questo salto, non lungo, non breve, abbia dato ai F.lli un “taglio diverso” della Triade divina in mezzo a noi, con noi, come progressione che ci spinga ad essere più leggeri e meno vincolati ai nostri pesi, nelle nostre tre componenti: Corpo, Anima, Spirito.
Confido anche che possano venirne spunti per ulteriori ricerche,nella prateria sconfinata della Massoneria Simbolica del V e VI secolo, dove, gli “Operativi” sapevano di greco e di latino e possiamo sentirli a noi più vicini.
Per quanto sia spesso ripetuto, è vero che ogni parola, ogni gesto, nel Rituale, ha precisi e indelebili significati, alcuni palesi, altri più velati. Da ogni Tornata dovremmo andar via almeno impercettibilmente diversi, e migliori. Tale è il senso di un cammino. Ma come e dove si colloca, nel nostro intimo, quell’ultimo: “ Tutto è giusto e perfetto ”?
Lascio ai miei Fratelli questo interrogativo come fatto personale, nel rispetto dell’interpretazione che ciascuno vorrà attribuirgli. Tutto l’argomento è racchiuso, in fondo, in queste poche righe finali. L’idea di una Loggia come Agorà non deve spaventare. Come ovunque, c’è chi cammina e chi preferisce sostare. Nessuno ha titolo per giudicare ciò che è meglio, confidando che chi preferisce la stasi, non impedisca ad altri di proseguire il cammino.
Opus Minimum
Gian Carlo Lucchi
R\L\ "Goffredo Mameli" 1192 GOI, Sassari

25 novembre 2011

- EVOLUZIONE SÌ, MA SENZA SELEZIONE



Le Scienze Biologiche, Fisiche e Matematiche stanno svelando un percorso evolutivo della realtà ina­nimata (mondo minerale) e animata (mondo vegetale e animale) che esclude il caso e il caos dai loro processi formativi (nulla è a caso). C’è una precisa determinazione originaria dell’architettura vivente. Essa è stabilita da regole geometri­che che si susseguono dall’infinitamente piccolo (particelle subatomiche, atomiche, molecolari) fino ai sistemi viventi più evoluti (ad esempio l’organismo umano). Non è quindi la casualità (salti evoluzionistici) o la selezione naturale (prevale il più adatto o il più forte) a stabilire le forme e le funzioni biologiche sempre più evolute, ma la comunicazione che le singole par­ti hanno tra loro in base ad un progetto architettonico già inscritto in essa (Simmetrie Architettoniche).
La combinazione di particelle e schemi più semplici in strutture e funzioni sempre più complesse sono possibili tramite dei messaggeri molecolari che interscambiano lo schema del progetto (autoassemblag­gio). Più gli organismi sono complessi più sono evidenti le simmetrie architettoniche che vi sottendono.
L’esempio più evidente è la formazione dell’embrione umano: se le cellule embrionali vengono se­parate tra di loro possono continuare a dividersi, ma, senza informazioni reciproche, sono incapaci di procedere nello sviluppo organizzativo finale e perdono di specificità, non hanno, cioè, comunicato chiaramente tra loro che appartengono ad un progetto originario comune. E’ così impossibile la for­mazione di organi strutturati con una gerarchia cellulare (cervello, cuore,…) e quindi successivamente di organismi complessi, cioè formati da una gerarchia sensata di organi (il corpo umano vivente e completo).
Nell’embrione, poi nel feto e ancora nel neonato possiamo così vedere l’evoluzione spontanea dal semplice al complesso solo tramite la comunicazione tra le unità elementari, in base a un progetto già inscritto in essa. L’ologramma, ovvero il tutto, è già nella singola parte. L’ordine e le simmetrie da una parte e le gerarchie dei sistemi, dai meno ai più complessi, dall’altra permettono, quindi, l’evolvere della realtà fisica che percepiamo. In tutto ciò non esiste lotta o com­petizione che seleziona il migliore. Tutto esiste necessariamente e non casualmente, cioè in base alla necessità di una forma che soddisfi una funzione. L’interrompersi di questo ordine e di questa armonia evolutiva crea l’involuzione e la distruzione del sistema in questione. E tutto ciò è visibile nelle Costellazioni Familiari, dove gli Ordini dell’Amore sono il rispetto gerarchico di chi viene prima (i grandi) rispetto a chi viene dopo (i piccoli). Nasce, così, un ambiente interno cellulare sempre più fortemente organizzato e costante ed un ambien­te esterno dove tutto fluttua ed è variabile.
E nelle Costellazioni Familiari è visibile un’altra analogia con la Biologia. Organismi viventi unicellulari infettano (“vengono ospitati da”) altri organismi viventi con una differente storia evolutiva, per meglio rafforzare e stabilizzare il proprio ambiente interno, contro la variabilità dell’ambiente esterno. In altre parole è una unione di stirpi diverse. Reciprocità, mutuo sostegno, fedeltà al progetto comune sono i mezzi con i quali questi organismi viventi garantiscono lunga vita alla propria specie-progenie. E que­sto è riscontrabile nelle Costellazioni Familiari, dove la fedeltà di branco, di tribù è spesso la chiave per osservare con chiarezza quel sistema familiare.
Quello che Bert Hellinger, con le Costellazioni Familiari, ha reso evidente è che le scale dimensionali dei vari piani di realtà assumono tutte la loro struttura in base a quei principi organizzativi che la na­tura stessa ha sviluppato al fine di sostenere la Rete della Vita (la Teoria della Complessità dei fisici o la Dinamica Non-lineare dei matematici).
E proprio la dimensione umana, tra quelle che conosciamo, è la più vicina all’energia primaria, che è il Progetto Architettonico Sistemico Originale.
Ciò che non è al suo posto nell’Ordine Sistemico è in dissonanza con il processo dinamico (autoevolu­zione continua) che è la Vita stessa. Vita che è l’istante dello spazio infinito sotteso tra i due poli di una situazione temporale in permanente antitesi: nascita-morte, maschile-femminile, vuoto-pieno, positivo-negativo, forma-funzione, simmetria-assimetria.
Nelle Costellazioni Familiari l’osservatore facilita il ritorno alla simmetria (la forma originaria del pro­getto architettonico) dall’asimmetria, che rende necessaria la funzione, cioè la Reazione Biologica Sen­sata (disordine o malattia), ben descritta da Ryke Geerd Hamer nelle sue “Leggi Biologiche”.
In parole più semplici: se in un albero genealogico qualcuno si mette in un posto sbagliato, ad esempio il grande al posto del piccolo o viceversa, l’asimmetria così generata ha bisogno di una crisi funzionale, ad esempio una cosiddetta malattia, per ripristinare la simmetria del sistema e la sua evoluzione, cioè il ritorno, su una scala a spirale, alla forma del Progetto Architettonico Sistemico Originale.
È così che la funzione è generata dalla asimmetria e la forma dalla simmetria, in perpetua costante alternanza in tutto l’Universo. E la
Pura Energia (Ordine, Tutto, Architettura Originaria, Unità, Divino o comunque si voglia chiamare) è ciò a cui tende l’evoluzione del mondo reale.
Leopoldo Mancaniello

19 novembre 2011

- Il solstizio, una porta Verso la vita e la sapienza























Ringrazio il direttore di Opus minimum per aver suggerito, a commento visivo del tema delle “Nozze mitiche”, oggetto di uno splendido contributo di Bent Parodi 1 l’immagine di una mia scultura realizzata lo scorso anno, nell’occasione delle celebrazioni del 3° centenario del principe Raimondo di Sangro. Grato per questo immeritato accostamento, devo confessare che mai avrei osato sperare in una più fedele interpretazione, aderente ai veri intenti che ispiravano quest’opera. La mia personale rivisitazione del Cristo velato, infatti, rappresentato in un accorato dialogo di forme plastiche con la Pudicizia, immagini emblematiche delle più intime aspirazioni spirituali del Sansevero, tentava di rendere in forma visibile l’anelito a realizzare l’ambita e irrinunciabile meta dell’Opera, quell’alchemica coniunctio, che ho tentato di rendere tangibile, imprimendo un moto di morbida spirale al velo che imbozzola entrambi, e finisce per riannodarsi intorno al simbolico Albero della Vita. Approfitterò dell’opportunità offertami dalla pubblicazione, allo scopo di rendere in queste pagine più trasparente l’intero progetto del gruppo scultoreo, soffermandomi sui dettagli che fanno cornice alla stele: simboli geometrici e cartografici nei quali, forse, soprattutto i miei concittadini napoletani, non avranno difficoltà a riconoscere un noto riferimento paesaggistico, stagliato sull’orizzonte della nostra città. Si tratta del Colle sant’Elmo, ripreso in uno scorcio non dissimile da quegli sfondi scenografici che impreziosivano le mappe del ‘700.
Il Solstizio d’Inverno a Neapolis
Il mattino del 21 dicembre, a Napoli, si annunciava con un insolito spettacolo di luce. Il sole, insinuandosi nel dedalo di vicoli di Spaccanapoli, aveva inondato da parte a parte la via Raimondo di Sangro. Ridiscendendo via del Sole, che ne è il prolungamento, non potevo non pensare alla storia e alla speciale vocazione di quel sito, alla sacralità “solare” cui fu destinato fin da principio, fin dalla fondazione di Neapolis. Dalla zona santuario del rilievo di Sant’Aniello a Caponapoli, in funzione di “acropoli”, quel percorso privilegiato immetteva verso l’area consacrata al culto dei Dioscuri, per una porta ad hoc contrassegnata dalla statua del Nilo, il Corpo di Napoli.
La nascita della città solare
Per sincerarmi dell’affidabilità della mia percezione, e fugare vane suggestioni, mi affrettai a verificare l’esattezza di questa inaspettata congiuntura astronomica, affacciandomi in piazza San Domenico Maggiore. Dall’ombra gettata sul selciato, non sarebbe stato difficile intuire l’angolo di incidenza della luce deducendolo dalla Guglia, assunta a gnomone di riferimento, quasi raffigurandomi l’intera piazza come una grande meridiana.
Che l’anima antica di Napoli sia attraversata, fin dalla notte dei tempi, da miti e riti, che ne attestano la divina origine solare, è noto da sempre.
Gli appunti di Goethe nel suo Viaggio in Italia mettono in evidenza lo stretto legame tra le tradizioni del territorio partenopeo e le sempre riaffioranti testimonianze di culti solari, quali quelli che dovevano trovare luogo nel Mitreo nella
Crypta Neapolitana, sita nella Grotta di Pozzuoli a Posillipo (IV secolo d.C.), la misteriosa, interminabile galleria che la leggenda vuole scavata nella roccia dalla magia di Virgilio nell’arco di una sola notte, col ricorso ad oscure arti di necromante.
Questa sera ci siamo recati alla grotta di Posillipo nel momento in cui il sole, tramontando, passa con i suoi raggi fino alla parte opposta. Ho perdonato a tutti quelli che perdono la testa per questa città.
Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio in Italia 1787
Torna di grande fascino, a riguardo delle origini solari della nostra città, un passo di Dicearco da Messina che ne restituisce la cronaca puntuale, articolata nei diversi momenti in cui il sacro vomere dei fondatori solcò da principio il tracciato urbanistico, introdotta dal rito degli auspici officiato sullo sfondo dello scenario naturale dispiegato ai piedi dell’altura, oggi identificabile col Colle Sant’Elmo, ove affaccia la stupenda Certosa di San Martino.
Seguiamo la descrizione del filosofo messinese 2 :
"Nell' inverno del primo anno della settantasettesima Olimpiade – il nostro cronista intende l’anno 472 a. C. –, al cominciare del giorno nel quale il sole, sorgendo, irradia dal punto dell'orizzonte più vicino al mezzogiorno (cioè nel solstizio d'inverno), … noi cittadini e soldati di Cuma, sotto la guida del nobile e saggio Ileotimo, figlio di Timanore, esperto nella sapienza di Pitagora, abbiamo risalito all'alba il sovrastante colle fino alla sua vetta, allo scopo di prendere gli auspici per la fondazione della nuova città in un sito più ampio ed agevole di quello … ove è ristretto l'abitato di Partenope.” Neapolis, appunto.
“Il punto medio della plateia di mezzo sarà il luogo dell'agorà (oggi piazza S. Gaetano),
presso la quale sarà eretto un altare ai figli di Zeus, signori della luce e delle tenebre. Da tal punto come centro, infatti, se si conduce un cerchio toccando all'interno i quattro lati della città, su esso lo scostamento dello gnomone dalla linea di mezzogiorno segnerà luce e tenebre nel giorno degli auspici.”
Uno scarto SOLSTIZIALE nella pianta di Neapolis.
I decumani sono orientati secondo il solstizio d’estate
I cardini principali AB - via Atri, via Nilo, via Paladino - e CD - via Duomo - seguono l'inclinazione di 22,5 gradi rispetto al meridiano BC 3 . Il segmento OE insiste sulla via S. Gregorio Armeno. Il punto medio della "plateia" di mezzo O segna il luogo dell' "agorà", identificabile con l’attuale piazza San Gaetano, in corrispondenza della quale fu eretto l’altare ai Dioscuri, “signori della luce e delle tenebre”. La Y di Forcella FG è sovrapponibile alla Y preesistente in Partenope, e divarica dall’asse viario formando un angolo di 36 gradi. In effetti, seguendo l’originaria, sofisticata ricostruzione dell’impianto urbanistico, sia pure espressa in questo linguaggio volutamente oscuro, come era costume dell'esoterismo pitagorico, proprio in quel punto, che funge da epicentro, la circonferenza inscritta nel disegno planimetrico della città, si divide in due parti diseguali - di 135 e 225 gradi 4 - proporzionali alla durata del dì (la minore) e della notte (la maggiore) nel giorno degli auspici 5 . Cioè quello del solstizio d'inverno. A Napoli, effettivamente, in quel giorno, il rapporto tra dì e notte – dal sorgere al tramonto astronomico del Sole – è di 9 ore a 15, ossia eguale a 135°/225°. Al solstizio d’estate questo rapporto si inverte. Il sito speciale, cui fa riferimento Dicearco, parlando dell’ara destinata al culto di Castore e Polluce, ospita oggi la chiesa di San Paolo Maggiore, sorta appunto nel luogo di una chiesa paleocristiana, proprio dalle spoglie del tempio dei Dioscuri (I secolo d.C.). Le vetuste colonne dell’originario tempio dei Dioscuri impiegate nella maestosa facciata di San Paolo Maggiore, hanno egregiamente assolto alla loro funzione statica, cedendo solo sotto le scosse del disastroso terremoto del 1688. Perché perdurasse nella posterità l’indelebile memoria delle sacre origini solari della città di Napoli, il nostro cronista conclude:
“La strada che, così come il regolo, si disgiungerà dalla plateia sia sigillo impresso nel corpo stesso della città dall'oracolo che ha consacrato Neapolis alla divinità misuratrice del cosmo”.
Intende riferirsi a via Forcella che altera di fatto, con un’anomala biforcazione, l’allineamento delle strade ordinate a scacchiera. Così, divaricando, ricalca la perfetta geometria della lettera sacra di Pitagora, la “Y”, e acquista, nel contesto speciale della fondazione della nostra città, un valore ancor più significativo.
L’angolo di 36 gradi, disegnato da via Forcella nella planimetria complessiva, misura la figura pitagorica consacrata al Grande Architetto dell’Universo e che dell’universo intero riassume le auree, ineffabili proporzioni. Cioè il decagono, ottenuto reiterando 10 volte la traccia di quell’angolo lungo i raggi della figura geometrica. Se solo ci avventurassimo alla ricerca di una traccia di quell’antica anima “solare”, nell’intricato dedalo di vicoli di Spaccanapoli, adiacente alla chiesa di San Paolo Maggiore, nel sito una volta consacrato all’ara di Castore e Polluce, scopriremmo oggi, la “Scarabattola”. Così si chiama la bottega dei fratelli Scuotto. Singolari scultori, unici nel nostro secolo, all’altezza delle magiche, ineguagliate trasparenze dei veli del Cristo del principe-alchimista Raimondo di Sangro. Non è certo per un’inspiegabile coincidenza, che una delle loro più provocatorie opere, intitolata i Di-Oscuri, pur riproponendo allusioni esoteriche che richiamano l’analoga installazione di Rebecca Horn in Piazza Plebiscito, non indugiano in scontate citazioni di quegli abituali scenari funzionali ad enfatizzare un compiaciuto folklore partenopeo alquanto incline al macabro, alle superstiziose frequentazioni di ossari, alle feticistiche adozioni di capuzzelle e di altre innocenti reliquie di bimbi. Gli Scuotto si spingono al di là delle facili, abusate speculazioni pseudo-esoteriche. Sono aperti a cogliere la solare creatività dentro l’irrequieta vitalità dionisiaca, l’irriducibile mai domato daimon del popolo napoletano, in eterno fermento dietro tradizioni, purtroppo incomprensibili ai più, a torto fraintese e condannate come espressioni ora di degenerata superstizione, ora di lugubri culti pagani, sopravvissuti ostinatamente all’accanito dissenso della Chiesa.
Resuscitando gli archetipi ancestrali della memoria storica, l’artista napoletano avverte, e con lui la società civile di questa grande città, l’intimo bisogno di evolversi verso il proprio luminoso destino, ahimè, interdetto dalla miopia del potere, nel solco di un recupero delle radici fondanti del proprio territorio di appartenenza.
È significativo, a tal proposito, che proprio l’emblema toponomastico del rione Forcella, prescelto a denotare un forte segnale di riscatto sociale – lo scudo troncato con la forcina “Y” e il motto “siamo nati per fare il bene” –, andrà disegnato sul pavimento della struttura polifunzionale aperta ai giovani di “Piazza Forcella”, proprio nella via oggi funestata dal degrado ambientale, nel luogo preciso che dieci anni or sono, fu teatro dell’efferato assassinio camorristico della giovanissima Annalisa Durante.
La Luce pitagorica nel progetto del Principe
Come un fiore caparbiamente rinato a sfidare l’arido deserto, ecco riaffacciarsi all’orizzonte del nostro terzo millennio, la virtù del geroglifico di quell’antica, immortale sapienza pitagorica, in forza della sua perenne palingenesi nel corso del destino del mondo.
Tornai a rileggere allora, con occhi nuovi la postura, tante volte già ammirata, della Pudicizia. Mi soffermai sullo studiato rituale, concertato d’intesa dal Corradini e il Sansevero, ch’ella inscena allo sguardo devoto dell’iniziando e che non manca di destare curiosità anche agli occhi profani di un visitatore occasionale.
Era impossibile non raccogliere il trasparente messaggio racchiuso nel gesto dalla mano destra della dama velata, tra le cui dita si schiude un significativo bocciolo di rosa.
Potrebbe mai passare inosservata l’allusione al sigillo inequivocabile della sacra lettera? Di certo non sarebbe passata inosservata all’iniziando-Teseo. Dopo aver ritualmente smarrito i suoi calcolati passi sul pavimento labirintico, egli si sarebbe giudiziosamente interrogato sull’autenticità dell’intima vocazione, volta alla virtù che lo elegge ad artefice nonché arbitro assoluto della propria sorte. Sì, sulle orme di Ercole giunto al bivio dell’irrevocabile scelta morale che destina l’uomo al luminoso firmamento degli eroi. Mi parve naturale interpretare il gesto della Dama come un invito, tutt’altro che un’ammonizione, ad aprirci ai nobili principi ispirati alle virtù di marmo.
Come è terribile questo luogo!
E nientemeno è la casa di Dio
e questa è la porta del cielo
Genesi (XXVIII, 10-17)
Non susciteremo certo meraviglia nel lettore, constatando come quel raggio luminoso che solca longitudinalmente l’affresco della Gloria del Paradiso affrescata da Francesco Maria Russo nella volta della Cappella Sansevero, partecipi intimamente al significato simbolico assunto dalla Luce nel progetto del principe. Indubitabilmente, l’origine della Luce dovette essere in cima ai suoi pensieri fin dalla prima ispirazione. L’inclinazione del raggio devia alquanto dall’asse geometrico della cappella posizionata ortogonalmente rispetto al tracciato urbanistico. Più precisamente, esso è orientato con un modesto scarto che permette di allinearsi verso il fondo dell’altare maggiore ove siede uno dei due angeli di Paolo Persico. Quello che mostra il titolo della croce: il cartiglio con la scritta INRI. Tornando a contemplare la volta, ci accorgiamo che simmetricamente, il globo stesso sorretto dagli angeli, recante la legenda “Mater pietatis”, di riflesso anch’esso raggiante della luce emanata dalla mistica Colomba, è decentrata dal culmine dell’arco che corona l’abside. Di fronte a tale non fortuito assetto simbolico, ritengo, da un canto, indispensabile ricorrere al prezioso insegnamento di Fulcanelli per intendere il percorso del nostro raggio di Luce. Necessario a rianimare alla radice l’anima del mondo, esso incarna la scintilla vitale comunicata dal Creatore attraverso il suo Fuoco creatore, il Deus absconditus dietro il velame della parola INRI. Ma finiremmo col confondere l’organico disegno iconologico di Raimondo se omettessimo, per un atto di imperdonabile superficialità, l’interpretazione di un dettaglio a torto passato come un ininfluente orpello decorativo. L'ostensione del globo orifiamma emerso dal ribollente crogiolo dei cori angelici, sciolti nel vortice della loro frenetica danza, ci mostra il vero vaso spirituale chiamato a raccogliere l'acqua ignea dell'Opera alchemica; il geroglifico che meglio esprime il concetto dello Spirito della Creazione, eternamente quiescente dentro la ganga della materia inerte. Proprio quella sfera raggiante che consacra la Cappella alla Mater pietatis ci esorta a soffermarci ulteriormente, in ragione del ruolo chiave ch’essa assume nel transito dell’immortale raggio igneo dello spirito attraverso l’universo del Tempio della Luce del Sansevero. La porta solstiziale rappresentata dal nostro aureo globo è il vero punto di sutura tra i Mondi; l’imprescindibile varco attraverso il quale s’invera l’armoniosa coniunctio tra Cielo e Terra. Questo dettaglio dell’affresco sembra tradurre eloquentemente nel linguaggio delle immagini, invocazioni ricorrenti nell’antica innografia mariana, non dissimili da quelle che potremmo leggere, ad esempio, in un messale del priorato cluniacense di Pébrac del XV secolo: “Ave, o porta di gloria, che avanzi dal cielo come sole di giustizia per il mondo”. Identiche figurazioni iconologiche risplendono, ancora oggi intatte, nel cielo della volta della Mater pietatis dell’Oratorio Caravita, annesso al Collegio gesuitico romano, assiduamente frequentato dai convittori negli stessi anni del soggiorno del giovane Raimondo a Roma. Nel simbolismo mariano la Vergine Maria è la Ianua Coeli, la porta misteriosa che, per opera dello Spirito Santo, può trasfigurare la terra che vincola l’uomo al mondo, alla morte, e introdurlo al cospetto di Dio. Mi preme sottolineare che gli appellativi echeggianti nelle litanie rivolte alla Vergine ricalcano alla lettera analoghe espressioni con cui la Sapienza viene diffusamente celebrata nelle Scritture, come illustrano chiaramente le immagini del Caravita, mutuate da fonti ispirate al “Discorso della sapienza” nel Libro di Siracide. Scopriamo, così, come l’iconologia cristiana abbia voluto incarnare nella Vergine immagini metaforiche riferite alla porta del Cielo e della Sophia, la Sapienza.
Natura, Sophia, Sapientia
Anche qui trovo illuminanti le pagine di Fulcanelli. 6 Disquisendo sull’etimologia della parola “materia” (latino: materia, radice mater, madre), in merito alle feconde implicazioni nel linguaggio alchemico, il maestro spoglia la figura della Vergine Madre del suo velo simbolico, onde mostrarne l’ulteriore, soggiacente connotazione esoterica. Cita, in proposito, la singolare epistola letta nell’occasione della messa dell’Immacolata Concezione. In essa, credo, ognuno possa cogliere, con lampante evidenza, come la Vergine assuma, al contempo, una seconda identità, rappresentata da un’originaria entità sapienziale, da sempre coesistente col Principio creatore, dimorante misteriosamente in un’oscura regione dello spazio ancora increato, quando il tempo era ancora senza tempo.
… Il signore mi ha posseduta all’inizio delle sue vie.
Io ero prima che egli plasmasse qualsiasi altra creatura.
Io ero nell’eternità prima che venisse creata la terra.
Gli abissi non erano ancora e io ero già concepita.
Risalendo a ritroso, troviamo conferma che la “materia” alla quale si applica il filosofo di Ermete, il Soggetto dei Saggi, altro non è che la personificazione, la corporificazione, della Sapienza. Nell’accostarsi alla Sapienza, le descrizioni delle sacre Scritture sembrerebbero parafrasare esplicitamente il linguaggio ermetico, in riferimento al risultato della Grande Opera:
… lunghezza di giorni nella sua destra, e nella sinistra ricchezza e gloria
… È albero della vita per chi ad essa s'attiene e chi ad essa si stringe è beato...
Proverbi. 3,16 / 18
Espressioni che ritroveremo, poi, testualmente citate nell’Atalanta Fugiens di Michael Mayer (l’alchimista tedesco del XVII secolo che fa palese allusione, tra l’altro, alle due porte solstiziali: la Janua Coeli e la Janua Inferi). Una mirabile tavola alchemica del trattato commenta l’allegoria della Sapienza accanto all’Albero della vita. La Fuga XXVI (in 8 duplici; infrà ): “Il frutto della Saggezza umana è l’albero della vita”, traduce sullo spartito musicale l’Epigramma che così si conclude:
… Chi l’avrà accostata con la ragione e con la mano troverà in essa il frutto dell’albero di vita.
E poi, dal Libro di Siracide 7, Discorso della Sapienza.
… Sono cresciuta alta come i cedri del Libano, come i cipressi del monte Hebron, 24,13
… come gli alberi di palma di Engedi, come le rose di Gerico …
… Il mio respiro era lo speziato odore della cannella, del dolce profumo della mirra più pura, dell’essenza odorosa del benzoino, del galbano, incenso fragrante nella sacra tenda. 24,15
… Mi ricorderai più dolce del miele, più pregevole del miele del favo. 24,20
… Mangiatemi e avrete sempre più fame; bevetemi ed avrete sempre più sete. 24,21
Per celebrare Cecilia, la madre persa precocissimamente nella ricorrenza del Natale 1710, Raimondo sceglie l’allegoria della Pudicizia. Colta nel suo più autentico significato rispettoso dell'iconologia classica, dietro il velo, replica di quello del Cristo del Sanmartino sotto il cielo della Mater pietatis, la Pudicizia incarnava consapevolmente la Bona Dea del mondo latino. La stessa celebrata quale Terra madre; la Ops mater di Varrone 8 . Pur nelle molteplici incarnazioni mitiche, cultuali, il mondo antico riconosceva in essa “la dea del popolo, la madre e la benefattrice, e quella che lo nutre”. Si coglie nella Pudicizia molto più di una semplice metafora della virtù evocata retoricamente a rispettosa memoria della genitrice. Non senza giusta ragione gli studiosi hanno inteso riconoscere dietro l'intangibile velo di Iside, che la rende invisibile a sguardi profani, l’emblema più eloquente della poliedrica sapienza del principe di Sansevero. E ancor più, si coglie, l'esplicito riferimento all'universale sentimento della Natura nella sacralità dei suoi cicli vitali, che incarna fin nel cuore della religiosità popolare, l'archetipo dell'antica dea Madre, diffuso nelle più differenti tradizioni cultuali, testimoniate dalle geniali intuizioni di archeologi della profondità di Maria Gimbutas. … Non stupisce, quindi, che l'eterno femminino sia stato inteso dalle mitologie in quelle concrete e umanissime (all'apparenza) figure femminili definite Grandi Madri dagli storici delle religioni. La serie di queste madri è quasi inesauribile, sia nella tradizione occidentale che in quella orientale. Praticamente, tutte le dee simboleggiano la personalità dell'eterna Grande Madre. Questa, in ultima analisi, non è che un'efficace rappresentazione antropomorfica della forza, dell'energia universale, che dà vita ai mondi, che sostiene e muove il cosmo nel suo processo espansivo.
… Giungiamo in tal modo ad un'ennesima immagine mitica: la donna è la rappresentazione sensibile della forza. In quanto delegata alla funzione generativa (ma anche mortifera) essa è simbolo puntuale della Natura, o piuttosto del suo principio informatore: la Natura naturans dei Latini …9
Il barone de Tschoudy e la lezione dell’Etoile flamboyante
Torna di grande chiarezza a riguardo, l'esempio dell’Etoile flamboyante (La Stella fiammeggiante) scritto del barone Henry-Theodore de Tschoudy, tra i fedelissimi del principe, al punto che Raimondo volle erigere una Loggia con Tschoudy stesso per Maestro.10
In fuga da Napoli, costretto ad un’inesausta peregrinazione per il mondo in nome di irrinunciabili ideali, egli incarna con la sua eroica testimonianza, uno dei più appassionati spiriti militanti della Libera Muratoria. La dotta esposizione del modello di catechismo ermetico massonico da lui coniato fonda il perfezionamento spirituale richiesto all'iniziando sull'ispirazione proveniente squisitamente dall'Alchimia, intimamente conformata all’imitazione della Natura. Obiettivo da perseguire con impegnativo studio, convinta dedizione, finalizzati ad emulare, fin nelle profondità dell’animo dell’adepto, le stesse prodigiose palingenesi che la Natura sa dispensare al sapiente alchimista orientato ad opere virtuose.
Elviro Langella
Opus Minimum

1 pubblicato in Opus minimum Solstizio d’Estate 2011.
2 NdR. Fonte: Renato Palmieri, http://zed7.tripod.com/napoli1.htm
3 NdR. Questo valore equivale alla distanza azimutale tra il sole che sorge il 21 dicembre e l’asse degli equinozi, ossia l’asse Est-Ovest.
4 NdR. Nota che 135+225=360, Inoltre, da questi dati si ricavano i valori dell’azimut del sole il 21 dicembre all’alba ed al tramonto per Napoli, Questi saranno Est+22,5° ed Ovest-22,5°.
5 NdR. Gli auspici vengono tratti nella notte più lunga dell’anno. E’ giusto congetturare che si comunichi più facilmente con gli Inferi.
6 Fulcanelli, il mistero delle cattedrali Edizioni Mediterranee pag 96
7 NdR. l Libro del Siracide (
greco Σοφία Σειράχ, sofía seirách , "sapienza di Sirach"; latino Siracides) o più raramente Ecclesiastico (da non confondere con l'Ecclesiaste o Qoelet) è un testo contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo. Wikipedia.
8
Varro libro quinto de Lingua Latina : "ideo dicitur Ops mater quod Terra mater
9 Bent Parodi, Le Nozze mitiche in Opus minimum . Solstizio d’Estate 2011
10 Per un puntuale approfondimento, rimandiamo allo studio di Paolo Galiani Raimondo De Sangro ed Henry Tschoudy in Opus minimum Dicembre 2010, estratto dal suo saggio: “Raimondo De Sangro e gli Arcana Arcanorum” edito “Simmetria”, collana di studi e ricerche sulle tradizioni spirituali.
“ … Il suo Ordine dell’Etoile Flamboyante (o Ordine dei Filosofi Incogniti), nato ufficialmente nel 1766, aveva invece tre soli gradi: Apprendista, Compagno e Filosofo o Professo; il suo catechismo si basava su principii di Ermetismo e di Alchimia secondo gli insegnamenti di Michele Sendivogius detto il Cosmopolita e di Francesco Maria Santinelli”.











13 novembre 2011

- Dante - Epigenesi di un mito




Il mito massonico - tutto ottocentesco - che vuole Dante Alighieri “iniziato” non è un mito “primario”: è sovraimposto, ovvero “epigenetico”, come direbbe un naturalista, ed è basato su un sillogismo.
Premessa mitica n. 1: Dante era Templare e Rosa Croce;
Premessa mitica n. 2: Templari e Rosa Croce erano dei (proto)-massoni;
Conclusione: Dante era una specie di (proto)-massone.
Quod erat demostrandum.
In Massoneria si è guadagnato un ampio spazio, del quale è debitore soprattutto a René Guénon, senza che questo debba farci dimenticare i numerosi precursori. Se si vuole individuare un precursore “minore”, questi potrebbe essere Marziale Reghellini, massone vicentino, patriota esule a Bruxelles, autore di un La Maçonnerie considérée comme le résultat des religions Egyptienne, Juive e Chrétienne, del 1829.
Il suo pensiero influenzò probabilmente il vero padre e propalatore del mito, e cioè Gabriele Rossetti 1
, che infatti lasciò scritto (cito a memoria) “Reghellini dice che il poema di Dante è un poema massonico, ma c’ero già arrivato anche io”.
All’origine c’è Inferno IX, 61-63:
O voi che avete gli intelletti sani / mirate la dottrina che si asconde / sotto il velame de li versi strani”.
Troviamo questi citatissimi versi anche nell’introduzione della Beatrice, l’opera con la quale Rossetti lanciò un’idea che, pure se del tutto sprovvista di supporto storico, attecchì ed è tuttora molto presente in Massoneria:
Dante, e come lui gli altri poeti stilnovisti, sarebbero stati membri di una setta iniziatica (i “Fedeli d’Amore”) entro la quale la tematica amorosa “copriva”, con un linguaggio criptato, idee “pericolose”, e messaggi soprattutto politici, in particolare la condanna della Chiesa degradata e l’utopia di un generale rinnovamento guidato dalla Croce e dall’Aquila (ovvero, la Chiesa stessa e l’Impero).
In quest’ottica, “Beatrice” è l’idea imperiale, “amore” è la setta stessa, eccetera. Interessante notare che l’idea del Rinnovamento Universale riappare nel Rinascimento, ma i tempi sono cambiati……
Rossetti spinse parecchio la sua analisi e aprì una strada che molti percorsero. Eugène Aroux, scrittore prolifico, letterato e uomo politico, ci ha lasciato una serie di opere generalmente considerate bizzarre. Nel 1854 proponeva un suo Dante eretico, rivoluzionario e socialista e due anni dopo ci dava una “Chiave della commedia anti-cattolica di Dante Alighieri, pastore della Chiesa albigese nella città di Firenze, affiliato all’Ordine del Tempio, ove si spiega il linguaggio simbolico dei fedeli d’amore nelle composizioni liriche, romanzi, epopee cavalleresche dei trovatori».
Siamo a livelli di elucubrazione altissimi: a lui si deve l’interpretazione (poi ripresa da Guénon) delle lettere F.S.K.I.P.F.T. che compaiono in un ritratto di Dante come Frater Sacrae Kadosh, Imperialis Principatus, Frater Templarius.
Francesco Paolo Perez, nell’attribuire a Beatrice il significato simbolico di “Sapienza Mistica”, si esprime però molto severamente con certi interpreti iper-simbolici di Dante e del paganesimo (Beatrice Svelata, 1865). Parla di un sincretismo dantesco grazie al quale tutti hanno ritenuto di farlo proprio, guelfi e ghibellini, eretici, ortodossi e protestanti.
Respinge l’idea dell’affiliazione di Dante ad una setta segreta, e qualifica Rossetti come sopraffatto “da un’erudizione raccolta in fretta e però mal digesta” e “dominato dal preconcetto che Dante sentisse e pensasse come un libero muratore o come un Voltaire”.
Paragona i critici moderni a Luciano di Samosata (“il Voltaire del paganesimo”) che fa dire a Giove: “Dacchè la filosofia e le quistioni di parole vennero crescendo tanto laggiù, io debbo o starmi per necessità con gli orecchi turati, o lasciarmi assordare da quelle mal cucite filastrocche di certe loro cose incorporee che vanno ad alta voce predicando”.
Secondo Perez, i cristiani inizialmente derisero le fantasie dei pagani, ma poi si accorsero che bastava interpretarle simbolicamente come preannunci del monoteismo, per utilizzarle a proprio vantaggio, dopo di che le adottarono trasformandole: fecero quindi (qui cita Agostino) come gli ebrei che scappando dall’Egitto si portarono via oro e argento per farne un miglior uso (una specie di “esproprio proletario” ante litteram). Gli interpreti arrivarono a “vedere nei più osceni libri erotici dei trattati di morale ascetica”: forse un’allusione al dantesco Fiore, ma non so se al tempo di Perez l’attribuzione fosse accettata.
Sulla strada dell’interpretazione esoterica si avventurarono anche Giovanni Pascoli (autore di vari, discussi studi danteschi) e un altro accademico, il suo allievo Luigi Valli, che fu divulgatore importante, con un’opera del 1928 (Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore; Luni ed., 1994) nella quale analizzò il supposto linguaggio segreto in grande dettaglio, arrivando a proporre la traduzione in lingua “iniziatica” di una quarantina di parole del linguaggio “grosso” 2
. In tale ottica interpretativa, le poesie “belle” danno addirittura fastidio, in quanto si giustificano male. Un esempio 3 : “i Fedeli d’Amore furono seguaci di una dottrina ermetica che non accettò l’insegnamento cattolico, d’una dottrina contro il potere temporale e contro gli atteggiamenti egemonici della Chiesa, d’una dottrina che prese caratteri sempre più umanistici fino a quando in essa prevalse l’aspetto estetico su quello esoterico. Allora finì nel nulla”. Di questa scuola di pensiero, il maggiore divulgatore è René Guénon col suo L’esoterismo di Dante. Va detto che c’è una contrapposizione tra chi vede l’esoterismo limitato alla Vita Nova e chi (Guénon tra questi) lo vede esteso alla Commedia. Ciò premesso, è impossibile riassumere qui quel libro in poche righe, e bisogna limitarsi a raccogliere qualche spunto.
L’autore insiste molto su certe descrizioni dantesche, che i rituali della settecentesca “Massoneria Scozzese” sembrano riprendere. Fa dettagliate analisi di linguaggio annotando, ad esempio, insieme ad Aroux, che il Veltro è un cane, parola affine al tartaro Khan che ha una connotazione di potere, come il verbo inglese can. Illustra l’esoterismo del numero 65, connesso con 1300 che è la data del viaggio all’inferno, constatando che 65 scritto in latino vale LVX (basta invertire la X con la V!), cioè Lux che evoca la “vera luce” delle datazioni massoniche….. Ma il punto forte della trattazione è l’appartenenza di Dante all’Ordine Templare mediata dal Rosacrucianesimo e dalla setta dei Fedeli d’Amore. Ad avviso di chi scrive, niente nella biografia di Dante suggerisce che potesse appartenere all’Ordine del Tempio né a suoi succedanei. E tuttavia, la “presenza” dei Templari nella Commedia è una delle colonne della “lettura” esoterica del poema. Il riferimento principale è forse Par. XXX, 124, là dove, nell’Empireo, Beatrice addita a Dante “il convento delle bianche stole”. Secondo i commentatori “profani”, il passo è ispirato all’Apocalisse di Giovanni (7, 9 segg.) dove i portatori delle “vesti candide” sono la moltitudine dei Beati. Secondo i cultori dell’esoterismo dantesco, invece, le “bianche stole” sono i Templari. L’interpretazione è forzatissima per due motivi. Anzitutto, ciò che caratterizzava la divisa dei Templari più che il colore bianco era la croce, adottata fin dal tempo della seconda crociata. Secondo, nel contesto grandioso di Par. XXX, un gruppo sia pure importante, ma limitato, come quello dei Templari, sarebbe stato un anticlimax: non avrebbero riempito gli “scanni” di cui alla terzina seguente. La condanna dantesca di Filippo il Bello si presta ad una considerazione di carattere generale. Su 14.000 versi, quelli che possono volonterosamente interpretarsi come connessi con l’Ordine Templare sono forse una decina: una presenza tenuissima. E c’è di più: nel poema, Filippo il Bello è attaccato come falsario e come pirata. Insomma, accuse di rapacità. Poca roba in confronto al rogo del Gran Maestro, che avrebbe dovuto apparire crimine mostruoso agli occhi del poeta, se veramente fosse stato affiliato ad una setta a affinità templare. Il fatto che i Templari non siano mai nominati è da qualcuno attribuito ad una prudenza resa necessaria dal fatto che, dopo il 1314, i Templari erano diventati un tema scottante.
L’ipotesi appare piuttosto debole, dato che il sanguigno poeta non ha avuto timidezze nel collocare in inferno altissimi personaggi consegnandoci versi di grande violenza e crudezza. Che accondiscendesse ad una (preventiva) censura della Chiesa, appare inverosimile. L’idea della presenza templare nel Paradiso dantesco troverebbe supporto nella figure simboliche che compaiono nei tre cieli di Marte, Giove, e Saturno: rispettivamente la Croce, l’Aquila e la Scala. Per quanto riguarda gli ultimi due, “è impossibile non riconoscervi quelli del Kadosch Templare” (L’esoterismo di Dante, p. 23 dell’edizione Atanor, 1992). Invero, la scala (a sette gradini) che quattro secoli più tardi troveremo nel rituale del grado massonico Templare non è nemmeno remotamente simile allo scalone, genere Wanda Osiris, sul quale si muovono i beati del cielo di Saturno.
In Inglese, l’equivoco non sussisterebbe: chiameremmo l’una ladder e l’altra grand staircase. Quanto alla croce, è vero che “dopo essere stata il segno distintivo degli ordini cavallereschi, serve ancora di emblema a parecchi gradi massonici”, ma è altresì vero che nel mondo cristiano la croce è onnipresente. Su Dante è stato detto di tutto, e la sua opera è stata qualificata persino come una raccolta di gossip fiorentino. Nelle logge di area guénoniana a volte si qualifica la Commedia come un “poema islamico” (nonostante il rude trattamento inflitto al Profeta in Inf. XXVIII), così chiudendo in modo un po’ drastico l’annosa discussione sulle fonti islamiche dell’opera. All’origine c’è il viaggio in altri mondi, il mitologema del quale la Commedia è intessuta, che si incontra in molte tradizioni, europee (attribuito a eroi quali Eracle ed Enea) ed extraeuropee compresa quella islamica. In questa ultima, in particolare, esiste un’opera (Al Mi’rậg) di Ibn Arabi, celebrato maestro spirituale, nella quale è descritto un pellegrinaggio nei cieli, che ha delle affinità con quello dantesco 4
. Ad una lettura della Commedia del tipo Valli/Guénon aderisce Alberto Cesare Ambesi, autorevole studioso di Massoneria e di religioni orientali, il quale, però, crede piuttosto ad un’origine iranica e, dubitativamente, ebraica 5 . Ma nel dopo-Guénon il mito si spinge oltre. Nel 1314 Dante a Parigi avrebbe assistito al rogo del Gran Maestro Jacques de Molay. Non vi è certezza che Dante sia mai stato a Parigi: il viaggio è menzionato da Boccaccio e da alcuni cronisti, ma non da altri. Talvolta la narrazione si arricchisce di dettagli. Esempio, sarebbe stato accompagnato da Giotto e si sarebbe spinto anche ad Oxford. Ammettendo che Dante sia stato a Parigi, non si sa se vi sia stato da vecchio (dopo l’esilio) o da giovane. Ammettendo che vi sia stato da vecchio, manca comunque ogni testimonianza che quel giorno fosse spettatore del tragico evento. Però, è bello pensarlo…. Chiaro, da quanto sopra, che tra i fautori del Dante esoterico la discordia regna su quale messaggio volesse criptare: pochi concordano con Rossetti. Per alcuni, l’illuminato deve usare un linguaggio criptato per esprimere concetti sovraumani, non per motivi di cautela, bensì in base all’aristocratico principio di “non gettare perle ai porci”.
Tra i fautori di questa teoria, ad esempio, ci sono quei cultori di islamismo che considerano il sufi Al Hallaj (giustiziato dai correligionari nel 922) come un illuminato, e al contempo approvano la sua condanna per “avere gettato perle, eccetera”. Ad avviso di chi scrive, le argomentazioni sul Dante esoterico sono indebolite proprio dalla loro varietà e diversità.

Ancora due annotazioni. La prima riguarda uno dei nodi interpretativi e cioè Beatrice: donna o allegoria? Boccaccio sostenne – come si sa - che Beatrice era una creatura reale: ebbene, secondo una certa lettura lo avrebbe fatto non perché ci credesse, bensì per distogliere da Dante il (pericoloso) sospetto che potesse esprimersi in modo simbolico/criptato: discorso che si incontra in letteratura e che definirei supercontorto.
Incidentalmente, Beatrice Portinari era una donna sposata. Come Radha, la paredra del Dio Krisna. E come la domina alla quale il trobadour tributava il suo amore-passione, circondato dal segreto, lasciando al marito l’amore “contrattuale”: la “clandestine” dell’amor cortese teorizzato alla corte di Eleonora di Aquitania e di Maria di Champagne, due secoli prima che Dante ponesse gli occhi su Beatrice. Qualche volta, osserva Mircea Eliade nella sua “Storia delle credenze e delle idee religiose”, il trobadour “riceveva il dono totale dalla propria domina”, al termine di un itinerario ritualizzato nel quale l’amore-passione sbocca nella “unio mystica”. Per Eliade, l’esempio di Radha e Krisna è significativo in quanto la “unio mystica” della tradizione indù, a differenza di quella cristiana, “proprio per sottolineare l’assoluto introdotto dall’esperienza mistica e la totale destabilizzazione della società e dei suoi valori morali, utilizza non già le immagini di una istituzione veneranda per eccellenza quale il matrimonio, bensì quelle del suo contrario: l’adulterio”. Il ciclo del Graal con i suoi elementi iniziatici – osserva – fu iniziato da Chrétien de Troyes, pupillo di Maria di Champagne e inventore di un’altra, celebre coppia adulterina: Lancillotto e Ginevra 6
. Che Dante non ignorasse la letteratura trobadorica, si può dare per certo: “noi leggevamo un giorno per diletto / di Lancialotto, come amor lo strinse”…..
La seconda annotazione riguarda il Canzoniere dantesco: per Rossetti (op. cit.),
“Le composizioni erotiche che in quella raccolta si leggono paiono scritte per una donna vera, e non per un fantasma allegorico: tanto quel modo di poetare è, oltre ogni credere, illusorio e ingannevole”. Chiaro che non c’è difesa contro simili argomentazioni. Eppure, Dante ha dimostrato di sapere rappresentare donne non angelicate: Francesca, ad esempio. In fondo, c’è lo stesso problema che si pone per il “Cantico dei Cantici”. Quelle espressioni di straordinario erotismo nacquero veramente per essere lette in chiave di mistica trasfigurazione? 7

Ho parlato finora della costruzione del mito di Dante esoterico. Se questa è un’operazione faticosa e discutibile, ma giustificabile sulla base del fatto che Dante, come chiarisce egli stesso nel Convivio, diede certamente dei messaggi da leggere al di là della lettera, ebbene, la costruzione del mito di Dante proto-massone è molto più faticosa, in quanto somma di due operazioni acrobatiche.
Primo, “lettura” esoterica di Dante; secondo, importazione di questa lettura nel bagaglio simbolico/iniziatico dell’istituzione massonica.
Dopo Guénon e Valli (anni 20 del 900), sul Dante esoterico il silenzio è durato una trentina d’anni per essere rotto dopo la seconda guerra mondiale in modo fragoroso, ovvero da un numero cospicuo di opere sulle quali non sarebbe possibile soffermarsi.
Il tema qui non è “Dante esoterico”, bensì Dante come “Mito Massonico”.

Lino Sacchi
R\L\ Pedemontana 696 GOI, Torino

1 Gabriele Rossetti (1783-1854), letterato, probabilmente massone, fu esule in Inghilterra dove divenne professore di Letteratura Italiana. Ha lasciato, oltre a vari altri studi danteschi, un’opera importante, “La Beatrice di Dante. Ragionamenti critici di Gabriele Rossetti” (1842, 5 scellini, “stampato a spese dell’autore”), importante soprattutto per la vague che ha messo in movimento.
2 Per esempio, “pietra” è la Chiesa, “fiore” è la Sapienza Santa (mah), mentre “vita” significa “verità e propriamente verità della setta”. Tra le altre parole tradotte, follia, fontana, tuono, gelo, fiume, saluto, verdura, eccetera
3 G.C.Lensi Orlandi Cardini, Il Bafometto dei Templari a Firenze, Arktos, 1988
4 Tali affinità furono messe in evidenza da un orientalista spagnolo Asin Palacios, al quale Guénon riconosce la paternità dell’idea non senza attribuirgli un fraintendimento grave: considerare El Arabi un mistico (invece che un metafisico). Dante non cita mai l’opera di El Arabi (mentre cita Averroè e Avicenna) il che, secondo Guénon, dimostrerebbe soltanto che la conobbe per vie “occulte”, e cioè attraverso gli ordini cavallereschi (op. cit., capitolo V; ad avviso del sottoscritto, può darsi anche che, semplicemente, non l’avesse letta). In Al Mi’rậg, comunque, la differenza rispetto alla Commedia è di tono, oltre che di contenuto. Il tono è didattico. I pellegrini sono due: l’adepto destinato alla salvezza e il suo amico, uomo di scienza privo di fede. Questo
ultimo perde la sua scienza e è destinato alla “fornace” tra l’esultanza dell’amico devoto. Scritti di Ibn Arabi comprendenti Al Mi’rậg sono stati tradotti in italiano a cura di Massimo Jevolella (“L’alchimia della Felicità”, ed. red, 1996).
5 Vedi ad es. “I Rosacroce”, Armenia ed., 1975, cap. 3. René Guénon (L’esoterismo di Dante), si esprime con disapprovazione sui critici occidentali moderni i quali “pretendono che questa leggenda non sia specificamente islamica ed araba, ma che sia originaria della Persia” risalendo a un libro mazdeano. Questa è proprio l’idea dottamente argomentata da Ambesi. In realtà, il contrasto tra i due studiosi è poco rilevante: entrambi riconducono il mitologema del viaggio ultramondano alla originale unicità ed universalità delle tradizioni, della quale Dante sarebbe interprete, che comprende in particolare il mito della caduta, nel quale non c’è nulla di “favolistico” (Ambesi, p. 54). Tale universalità sarebbe “rivendicata e talvolta fraintesa nel seno di quelli che si è soliti definire movimenti sincretisti” (ibid.): probabile riferimento a New Age.
6 Interessante il confronto con un altro famoso adultero l’ “uomo della frontiera” Digenis Akritas, eroe del’’omonimo poema epico bizantino all’incirca coevo dei romanzi del Graal. Stesso lo sfondo storico (guerra della Cristianità contro Turchi e Arabi). Stessa l’importanza dei codici di onore. Anche qui è centrale, nel mondo dell’eroe, la conquista della donna amata, vista però più come preda che come domina.
7 Alcuni fautori del Dante esoterico, negando l’emozione, negano, come innecessario, il Dante poeta, dal quale sono disturbati. Ma è difficile disconoscere che Dante era poeta, e grande poeta. All’idea di poeti (grandi poeti in qualche caso) che si scambiano messaggi criptati, si può rivolgere un’obiezione di fondo: perché dovevano essi ricorrere a un modo così contorto e criptico per comunicare ed esprimere, ad esempio, amor di Dio e/o ansia di spiritualità? Potevano telefonarsi o mandarsi pizzini…. Invece utilizzarono un linguaggio che fu decifrato solo mezzo millennio più tardi. E non senza incertezze, come abbiamo visto: Valli (e prima di lui Perez) dicono che Rossetti non ha capito, Guénon dice che non hanno capito né Rossetti, né
Perez, né Valli, né Aroux, e salva solo Arturo Reghini il quale, peraltro, di Dante si è occupato marginalmente. Senza contare le letture politiche ovvero “ghibelline”, che non sono delle minori: Monti, Foscolo, Carducci, Mazzini….










12 novembre 2011

- Opus minimum - Dicembre -








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11 novembre 2011

- La connessione fra scienza e kabbalah



Un viaggio appassionante nella Kabbalah in cui i due storicamente inconciliabili e incompatibili opposti, scienza e fede, si raggiungono e fondono in un'armoniosa unità...
La Torah è il DNA spirituale del popolo ebraico e, allo stesso tempo, la matrice del suo DNA biologico: la continua, ininterrotta lettura e ripetizione di generazione in generazione delle parole in essa contenute ha letteralmente plasmato il codice genetico del popolo eletto. Le più recenti scoperte scientifiche forniscono prove in laboratorio di ciò che i Kabalisti dichiarano da alcuni millenni, e cioè che il linguaggio umano, le parole, il suono e le frequenze vibratorie possano influenzare, modificare e addirittura riprogrammare il codice genetico presente nell'essere umano e influire, tramite di esso, sulle altre forme di vita animale, vegetale, minerale, subatomica e interstellare. La stessa struttura fisica del testo sacro ricalca la struttura del genoma umano, e la codificazione del genoma umano, a sua volta, rivela una sorprendente conformità con i codici esoterici tramandataci dai Maestri della tradizione ebraica. Israèl è il popolo del “libro”, o meglio della “Parola” e, come tale, ha sviluppato nel suo seno una mistica del linguaggio, chiamata Kabbalah. Secondo la Bibbia ebraica Dio1 crea tutto mediante la Sua Parola. La parola è all’origine di tutto ciò che esiste. Secondo la Kabbalah ebraica il testo della Torah cos’ ì com’è scritto e ci viene tramandato, non è nient’altro che l’ultima tappa di un progressivo processo di “materializzazione” della Torah eterna e increata che il Verbo divino compie nel suo discendere verso gli uomini; la Parola di Dio cioè si restringe, si veste del linguaggio umano affinché possa essere udita e compresa. Dunque a partire dal testo sacro è possibile ripercorrere il cammino all’inverso: a partire dalle parole è possibile risalire alla loro sorgente primigenia. In effetti, ciò che distingue l’uomo da tutte le altre creature e che lo rende allo stesso tempo simile al suo Creatore è appunto la “parola”. Per questa ragione l’ebreo religioso è sottomesso ad una mole indicibile di rigidissime regole che concernono un uso santo della lingua: con le parole che pronunciamo costruiamo o distruggiamo mondi. La parola umana ci rivela, ci comunica e trasmette il pensiero per mezzo di codici linguistici costituiti dall’infinita combinazione di suoni-base che vengono associati ad elementi grafici quali le lettere dell’alfabeto. Il suono della voce, l’inchiostro e la carta diventano i supporti materiali mediante i quali le informazioni del linguaggio vengono trasmesse; le lettere dell’alfabeto, sotto forma di molecole d'aria compressa in onde sonore o sotto forma di simboli grafici, sono i veicoli del viaggio, che permettono cioè lo spostamento spazio-temporale del messaggio. La tradizione ebraica considera le lettere della lingua santa, l’ebraico (lingua madre da cui derivano le altre lingue), non come semplici elementi di comunicazione semantica o come astratti strumenti di calcolo matematico, ma come le tracce delle realtà superiori da cui provengono, e attraverso le quali è possibile risalire alla loro sorgente suprema. In questo modo le lettere, veicoli di energia divina, diventano per il kabalista vere icone di contemplazione mistica, e l’atto stesso di scriverle imita l’atto creatore di Colui che tutto ha creato mediante di esse. I Maestri si accostano al testo Sacro con una metodologia simile a quella che gli scienziati adottano per analizzare la materia: ogni parola viene ingrandita come per mezzo di una lente al fine di analizzarne la forma e struttura interna. Le parole sono come geni di un cromosoma estratto da una cellula del corpo della Torah. Per il kabalista le lettere dell’alfabeto ebraico sono i veri mattoni per mezzo dei quali Dio ha creato l’universo in ogni sua parte e trovano il loro corrispondente nelle particelle subatomiche che compongono la materia. Entrando così in ogni singola parola, a partire dal più piccolo segno, i Maestri riescono ad estrarre tesori inimmaginabili e a comprendere le leggi che governano la materia, le galassie e tutti i mondi. La Kabbalah è una scienza mistica, e come ogni scienza che si rispetti, si avvale anch'essa dell'applicazione rigorosissima di tecniche alfabetico-numeriche al testo ebraico della Torah, come la ghemàtria, la temurà e il notàrikon: la lingua ebraica non possiede segni grafici numerici; le lettere dell'alfabeto ebraico sono considerate esse stesse come cifre. In questo senso ogni lettera è una cifra, e una parola, oltre ad essere la somma di più lettere, è anche una somma numerica di cifre separate. Ogni associazione di lettere dà vita ad una nuova cifra, in modo che la Torah offre di sé sia una lettura “letterale”, secondo il senso del linguaggio, sia una lettura “numerica” in codice. Uno dei criteri fondamentali su cui si basano le tecniche di calcolo Kabalistico, è che fra due parole che hanno lo stesso valore numerico esista una profonda analogia anche sul piano mistico: in questo modo, parole completamente diverse fra loro, vengono messe in relazione alfabetica o numerica. Questo accostamento fra scienza e Kabbalah è un po' il filo conduttore che lega i vari temi affrontati in questo libro: la Kabbalah ha la capacità di integrare e conciliare questi due opposti, scienza e spiritualità. Mentre la scienza spande in modo impressionante la sua conquista nell'universo della materia, vediamo con sconforto che la coscienza media dell'essere umano non sembra essere evoluta di molto rispetto al passato: ancora oggi nel mondo esistono conflitti, ingiustizie sociali, guerre. La separazione fra queste due sfere, scienza e spiritualità, la dicotomia ossia fatta fra cervello sinistro e cervello destro, fra ragione e mistica, ha fatto sì che sia la scienza che la religione abbiano in parte fallito nel loro tentativo di migliorare l'uomo. La scienza da sola, senza offrire le risposte relative alla causa prima di tutte le sue ricerche, lascia l'uomo perduto in un vuoto disperato. D'altro canto la religione, negando o allontanando le provocatorie conquiste della ragione, spesso rischia di chiudere l'uomo in una prigione ideologica che lo rende schiavo di un potere esterno alla propria volontà personale. Soltanto nella Kabbalah questi due storicamente inconciliabili e incompatibili opposti, scienza e fede, si raggiungono e fondono in un'armoniosa unità: la mistica illumina la scienza sul valore e il senso intrinseco delle dimensioni che essa scopre ed esplora; la scienza, a sua volta, offrendo il supporto del rigore dell'intelletto, preserva il sapere mistico dal rischio di cadere nell'illusione.
Shazarahel

1 novembre 2011

- Bruno, il movimento rosacrociano e la Massoneria.



Una fredda mattina di febbraio, il 17 febbraio 1600, questa altissima mente venne spenta per sempre e consegnata alla storia. ”Questo rogo arderà in eterno”, venne detto proprio da chi aveva emesso quella sentenza e che aveva più paura di colui al quale quella sentenza era diretta. Ma certe tracce non si persero ed a Parigi, Tolosa, Ginevra, Londra, Francoforte, Wittesburg, Praga, Venezia, Padova, Roma, tutti luoghi e Università dove Bruno era stato accolto, aveva stretto amicizie e lasciato discepoli, non rimasero sordi alle sue parole. Rimase un certo collegamento in certi circoli o cenacoli. Era pericoloso parlar di Bruno e leggere i suoi libri scampati ai roghi cui vennero condannati con la stessa sentenza del 17 febbraio 600. Il XVII° secolo s’era aperto con un rogo tanto “eclatante”, nella “santità” dell’anno santo, che sottolineava la pericolosità della reazione papista nel reprimere idee progressiste in ambito filosofico e scientifico. Ma non si possono ingabbiare le idee, che circolano oltre le frontiere e i regimi, con la leggerezza dell’aria che li sospinge. Gli emblemi bruniani divennero simboli di realtà interiori che pochi possono interiorizzare. Emblemi e simboli che sottintendono stati dell’animo e solo coloro che sono ,“iniziati”, a tali letture sanno percepire e leggere come scrittura interiore, in teatri della memoria.
Numerosi i particolari da citare, per tutti i primi tre lustri del ’600 le idee della “nova Filosofia” circolarono più o meno velatamente. Poi accadde che nel 1614 in tutta Europa apparve uno scritto in cinque lingue, e si diffuse nei luoghi e tra i “dotti” che furono ferventi estimatori ed acclamatori delle lezioni bruniane: la nuova realtà si manifestava agli occhi dell’Umanità alla luce delle nuove scoperte dando un rinnovato slancio verso la comprensione razionale dell’uomo e della natura.
La “Fama Fraternitatis o Rivelazione della Confraternita del Nobilissimo Ordine della Rosa-Croce, dedicata a tutti gli uomini dotti e ai sovrani d’Europa”, stampata a Kassel da Willhelm Wessel nel 1614 , s’apre con un preambolo di puro stampo ermetico e neoplatonico, richiamando quell’appello tanto caro a Bruno per una riforma generale come espressa nello “Spaccio della bestia trionfante” una prosecuzione, una maturazione, ora si, adatta ai tempi. Questo l'inizio della “Fama”: “Poiché l’unico dio saggio e misericordioso ha riversato sull’umanità la sua misericordia e bontà con tanta dovizia, da permetterci di conseguire una conoscenza sempre maggiore e perfetta di suo figlio Gesù Cristo e della Natura, possiamo vantarci a buon diritto di vivere in un tempo felice in cui s’è rivelata quella metà del mondo fino ad ora a noi sconosciuta e celata. Ci ha fatto conoscere molte meravigliose opere e creature della natura mai viste prima, ma ha anche fatto sorgere uomini di grande sapienza, che potrebbero in parte rinnovare e condurre a perfezione tutte le arti, ora contaminate e imperfette, cosicché l’uomo possa finalmente comprendere la sua nobiltà e il suo valore e perché sia chiamato microcosmus e quanto la sua conoscenza si estenda nella natura. Il manifesto è preceduto da un preambolo “La Generale riforma dell’Universo dei sette savi della Grecia e da altri letterati, pubblicata per ordine di Apollo.
Benché la voce di Bruno appaia presto soffocata in Italia, una eco rimase nei “Ragguagli del Parnaso” di Traiano Boccalini con la loro ironica discussione di questioni contemporanee nel quadro di un convegno tenuto sul Parnaso sotto la presidenza di Apollo. Quest’opera ricorda lo Spaccio bruniano sia per l’uso lucianesco che fa della mitologia per presentare un atteggiamento politico simile, che per annunciare una nuova era di conoscenza tra gli uomini. Il Boccalini era un liberale veneziano animato da sentimento antispagnolo e quindi fortemente critico verso il papato imperiale e l’eroe della sua opera è Enrico IV il Navarra. E proprio sull’amicizia e la lungimiranza del Navarra, Bruno fondava le sue speranze di riforma;da notare anche di come venne accolto favorevolmente dai luterani di Wittemberg tanto che nel suo esaltante discorso all’università, profetizzò la scoperta della verità tra di loro. Inoltre nella sua delazione contro Bruno fatta all’Inquisizione, il Mocenigo riferisce che: “questi aveva detto di avere avuto l’intenzione di “farsi autor di una nuova setta sotto nome di nova filosofia. E molte volte dicea che in Germania li anni passati erano tenute in prezzo l’opere di Lutero, ma che adesso non erano più stimate, perché doppo che hanno guastato l’opere sue non vanno cercando altro; e che havea cominciata una nuova setta in Germania, e voleva tornare a formarla et istituirla meglio, e che volea si chiamassero giordanisti” .
Altri informatori fecero a stessa insinuazione, aggiungendo che se fosse liberato di prigione li sarebbe tornato perchè la sua riforma attirava particolarmente i luterani tedeschi. L’aria luterana del movimento dei Rosacroce sottolinea l’ipotesi di uno stretto legame con i contenuti della riforma predicata da Bruno e annunciata nello Spaccio, una visione totalmente laica dell’uomo affrancato da ogni dogma fideistico, liberato dalle catene dell’ignoranza e finalmente in grado di forgiarsi da se. Nella cabala e l’alchimia dei Rosacroce, si afferma che le divisioni della cristianità tra romani, luterani e calvinisti sono irreali e non vanno tenute in alcun conto dal momento che tutti sono in fondo la stessa cosa e tendono allo stesso fine.
Nel movimento dei rosacroce abbiamo una sopravvivenza, una continuazione di quelle tendenze irenistiche e liberali che erano state caratteristiche dell’ermetismo religioso del XVI° secolo e che Bruno aveva tradotto in pratica durante le sue peregrinazioni da un paese all’altro predicando contro la “pedanteria” ovunque vi si imbattesse. Stessa caratteristica si può dare al movimento rosacrociano, tanto che si può affermare in generale una continuazione, da parte dei Rosacroce, del motivo di riforma in un contesto ermetico che era stato caratteristico di Bruno.
I Rosacroce rappresentano in qualche modo la tradizione ermetico e cabalistica del rinascimento, facendola rivivere in stretta associazione con idee religiose; la loro magia e la loro cabala erano più un ritorno alle origini rinascimentali che espressione dei più recenti sviluppi di quella tradizione, così come si vennero configurando in Bruno e Campanella. Era certamente giunta a loro la voce del movimento di riforma predicata da questi due missionari, che avevano effettivamente propagandato la loro missione in Germania. Si può quindi supporre che le aspirazioni ad una riforma universale in un contesto ermetico nutrite dai Rosacroce debbano qualcosa sia a Bruno che a Campanella
Esiste oppure no un rapporto fra i Rosacroce e le origini della Massoneria?
Della Massoneria come istituzione si sente parlare per la prima volta nell’Inghilterra nel XVII° secolo, quando Elias Ashmole afferma di essersi fatto massone in una loggia di Warrigton nel 1646. Dall’ ammissione di massoni “accettati” deriva verosimilmente l’ingresso nel simbolismo muratorio di tematiche non direttamente legate al mestiere, ma appartenenti alla cultura ermetico-alchemica e cabalistica dell’Europa occidentale tra il XV e il XVII secolo. Viene indicato frequentemente, come esempio di siffatta osmosi, il caso di Elias Ashmole, famoso erudito ed ermetista inglese, nato nel 1617 e curatore di raccolte di scritti alchemici. Si sostiene che Ashmole appartenesse alla mitica fratellanza dei Rosa Croce, come il teologo protestante Johann Valentin Andreae. La letteratura d’ispirazione rosacrociana richiamò l’interesse di quasi tutti gli intellettuali dell’epoca, compresi Cartesio e Leibnitz, provocando polemiche da un capo all’altro d’Europa. In Inghilterra le idee ermetiche e utopistiche dei Rosa Croce influenzarono probabilmente la concezione della New Atlantis di Francis Bacon e trovarono in Robert Fludd un accanito sostenitore. Ne fu affascinato lo stesso Ashmole e Isaac Newton studiò le opere del celebre scrittore rosicruciano tedesco, Michael Maier. Certamente esistevano in Inghilterra tradizioni ed origini anteriori alle quali si rifacevano Ashmole e il suo gruppo, ma al momento se ne sa ancora poco. Può essere significativo che Bruno predicasse non solo ai luterani tedeschi, ma anche ai cortigiani dell’Inghilterra elisabettiana? La missione di Bruno in Inghilterra, con il suo richiamo a idee sociali e mistiche anteriori alla riforma, con la sua deprecazione della rovina delle grandi abbazie e dei grandi monasteri, ha molto in comune con quegli antichi massoni. In Inghilterra, Bruno applicò il suo ermetismo alla devozione per la monarchia, al culto cavalleresco tributato ad Elisabetta I° dai suoi cavalieri. Gli interessi del primo massone a noi noto, Ashmole, non contrasterebbero con l’idea che egli fosse influenzato da motivi che risalivano ai circoli di corte del tempo di Elisabetta. Ashmole era un fervente realista con un forte interesse per la storia della cavalleria. Che l’influenza di Bruno perdurasse in circoli di corte è indicato pure dal Coelum Britannicum, rappresentato a corte solo dodici anni prima dall’ingresso in massoneria di Ashmole E’ molto plausibile che l’importazione delle idee dei Rosacroce in Inghilterra, da cui vennero influenzati Fludd e Ashmole possa essersi incrociata con una precedente corrente cortigiana influenzata da Bruno, dando così vita alla massoneria. In ogni caso la nuova comprensione della natura, l’influenza di Bruno nella cultura in Inghilterra e in Germania ne fa una figura chiave per lo studio di quegli impulsi attraverso i quali l’ermetismo rinascimentale confluì nei canali sotterranei delle società esoteriche del XVII secolo. Si dice che il Flauto Magico di Mozart esprima alcune sue credenze massoniche. Se è così, potremmo avere in quest’opera una traduzione in immagini poetiche e musicali del tema della buona religione degli Egiziani, dei misteri di Iside e Osiride a cui vengono iniziati i buoni, dell’atmosfera magica attraverso la quale l’anima dell’uomo procede verso una salvezza ermeticoegiziana. Naturalmente era la massoneria continentale quella cui era in contatto Mozart. Ma tutta la massoneria continentale derivava in ultima analisi dall’Inghilterra; ed era stato nell’Inghilterra elisabettiana che Giordano Bruno aveva così appassionatamente predicato la rinascita della religione egiziana. Il nome di Zarastro, il grande sacerdote, rifletterebbe l’immagine di Ermete Trismegisto che compare nelle genealogie di sapienti del Rinascimento. Bruno prende come base l’ermetismo magico egiziano, predica una specie di controriforma e profetizza un ritorno alla tradizione egiziana grazie al quale le difficoltà religiose si comporranno in una soluzione nuova. Propugna una riforma morale, accentuando l’importanza di buone opere sociali, di una etica rispondente a criteri di utilità sociale. Dove mai si ritrova una simile sintesi di tolleranza religiosa, di solidarietà psicologica col passato, il ricorso alla tradizione,di esaltazione delle buone opere, di adesione entusiastica alla religione e al simbolismo degli egiziani? L’unica risposta a questa domanda è: nella massoneria, con il suo mitico collegamento con i muratori medioevali come tramandatori di una sapienza antica, comprensibile solo a pochi ed esprimibile solo attraverso simboli che non sono altro che geroglifici, scritti sulla pietra per avere durata eterna ed incorruttibile dal tempo, con la sua tolleranza, la sua filantropia e il suo simbolismo egiziano.. La massoneria come istituzione ben caratterizzata, non appare in Inghilterra che agli inizi del XVII° secolo, ma sicuramente essa ebbe precedenti e tradizioni che risalgono molto indietro nel tempo. A questo punto non possiamo fare a meno di domandarci se non sia stato proprio fra gli inglesi spiritualmente insoddisfatti, i quali forse trovarono nel messaggio “egiziano” di Bruno qualche motivo di sollievo, che i temi del Flauto magico risuonarono per la prima volta nell’aria.
Roberto Momi