22 dicembre 2012

- Della Bellezza



Cos'è la Bellezza? Senza andare ad immergersi nella infinita discussione che per millenni ha avuto come oggetto la bellezza da parte di filosofi, artisti, pensatori, esteti, poeti, scrittori, partiamo dalle basi.

Io, per non saper nè leggere nè scrivere, ho voluto consultare il vocabolario Zingarelli: "Qualità di chi o di ciò che è bello" e il bello "ciò che, per aspetto esteriore o per qualità intrinseche, provoca impressioni gradevoli." E vi era anche una radice etimologica interessante che cito testualmente: (latino BELLU(M) dim. di BONUS "buono").

Questo vuol dire che, almeno per i popoli che parlavano latino, "bello" e "buono" erano praticamente sinonimi. E anche le " qualità intrinseche", citate separate dall' " aspetto esteriore" riportano sempre al concetto di "buono". Questo collegamento fa sicuramente riflettere.

"Il traguardo ultimo del mondo è la bellezza", sottolineerà David Maria Turoldo, ma sarà Dostoevskij ad ammonirci:

“La bellezza è il campo di battaglia in cui Dio e Satana si giocano il cuore dell'uomo".

L'imponente e tragica figura del principe Myskin ci ricorda, sì, che "la bellezza salverà il mondo", ma ne svela anche il profilo bifronte.

Del resto l' aveva già intuito il mondo classico quando all'armonia apollinea della bellezza ne aveva appaiato il volto dionisiaco orgiastico e fin stravolto.

Il bello può essere illusione, miraggio e persino inganno, come spesso accade nella fatuità dei corpi levigati e senza anima. Ma è anche la via "pulchritudinis ad Deum", come insegnava la grande spiritualità, certa che là si svelassero le epifanie divine. Per capire veramente l' idea di bellezza per gli antichi dobbiamo prescindere dalla associazione automatica che a volte facciamo, quando pensiamo al mondo greco, tra filosofia platonica e statutaria classica. La bellezza fisica di cui parla il platonismo, quando la identifica con la bontà, è quella che oggi manca di più al mondo: la bellezza interiore che si presenta nell'immagine esteriore (in greco eikonè) di un volto o di un corpo umano agli occhi che la sanno cogliere. Non quindi la bellezza patinata, ridotta alla propria superficie e dunque alla superficialità, ma la bellezza come espressione di un ordine insieme interiore e superiore. Ed è per questo che alla dea della bellezza, Afrodite, gli antichi associavano anche quella particolare forma di giustizia, analizzata da James Hillman nel suo saggio "La giustizia di Afrodite".

La bellezza come giustizia, intesa cioè come adeguatezza, giusta collocazione, ordine; e la giustizia come suprema bellezza. Non è un caso che anche lei sia compresa nella triade essenziale: non solo la bontà, ma anche la giustizia compongono il paradigma della vera bellezza, completando quell'identificazione tra sfera estetica e sfera etica, che tutto il pensiero antico, anche quello cristianizzato, non farà che riaffermare.

Come scrive Agostino:

"Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu eri dentro e io ero fuori e là ti cercavo".

"...L' uomo moderno", dirà Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali, II,4, "si porta in giro un' enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all' occorrenza rumoreggiano dentro di noi...Con questo rumoreggiare si rivela la qualità piu' propria di questo uomo moderno: lo stesso contrasto di un interno a cui non corrisponde alcun esterno, e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno, un contrasto che i popoli antichi non conoscono..."

Nel suo saggio Ipotesi sulla bellezza Susan Sontag però dichiara, in termini per certi versi definitivi:

"...Si ritiene di solito che la bellezza sia, quasi tautologicamente, una categoria estetica e che perciò si ponga, a detta di molti, in rotta di collisione con l'etica. Ma la bellezza, anche quella che non ha nulla a che fare con i giudizi morali, non è mai pura e semplice. E l' attribuzione della bellezza non è mai scevra da valori morali. Etica ed estetica non sono affatto agli antipodi, come insistevano Kierkegaard e Tolstoj: il progetto estetico è quasi di per sè un progetto morale.

E oserei dire che il tipo di saggezza che scaturisce da una vita dedicata a un profondo impegno in questioni estetiche non può essere equiparata a nessun altro genere di serietà..."

Non è dissezionando i petali che si coglie la bellezza della rosa.

Questo è un detto - come altri spesso legati alla natura - degli Indiani d' America. La lezione è senz'altro suggestiva: potrebbe infastidire gli strutturalisti che si inebriano nel dissezionare i testi nelle loro cellule letterarie o semantiche, oppure i filologi che sottopongono a microscopiche analisi ogni parola o sintagma di un verso, e il loro piacere sta tutto li'. Sono sicuramente utili o necessarie anche queste analisi , ma è il fiorire della poesia o dell' arte nel suo insieme a generare bellezza e meraviglia. Ma, forse, ha ragione il poeta giapponese BASHO (1644 - 1694 ) quando, con tutta la delicatezza propria agli orientali, ci insegna :

Non vi è nulla di ciò che si contempla che non sia (bello come un ) fiore, nulla di ciò che si pensa che non sia (attraente come la ) luna. Chi non intuisce (la bellezza di ) un fiore in ogni forma è un barbaro. Chi non ha un animo (delicato ) come un fiore è una belva.

E' stato detto:

"Fuggi la barbarie, abbandona l'animalità, ubbidisci alla natura e ad essa torna".



Aleksander Rojc

R.L. Nazario Sauro 527 Goi, Trieste

Articolo pubblicato su OPUS MINIMUM del Solstizio d’Inverno 2012

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9 dicembre 2012

- Solstizio d’Inverno.


Solstizio d’Inverno. Tempo di speranza. La Luce verrà. E gli uomini e Madre Natura ne saranno felici.
Re Agrifoglio (1) e Re Quercia saranno di nuovo l’uno contro l’altro, come sempre accade da quando esiste il Tempo. Quando Luce e Tenebre si combattono, per avvicendarsi in un circolo infinito, il Re Agrifoglio e il Re Quercia, a turno, si uccidono l’un l’altro. Uno di essi deve morire affinché l’altro possa regnare.

Ed è quello che da sempre accade, in tempo di Solstizio.
Il giorno più lungo, il giorno più corto.

Le energie del Cielo e della Terra si muovono, cambiamo direzione. E noi umani, ospiti inattesi in questo luogo, percepiamo questo fluido mutare.

Solstizio d’Inverno, il tempo del Re Agrifoglio, per quest’anno, giunge al termine.

Re Quercia lo ucciderà in battaglia e regnerà fino al prossimo Solstizio. Con l’arrivo dell’Estate, ci sarà una nuova battaglia. E, stavolta, Re Quercia dovrà soccombere.

Re Quercia e Re Agrifoglio sono gemelli, forse sono le due anime dello stesso Essere, della stessa Entità. Senza l’uno, l’altro non potrebbe esistere. In alcune tradizioni pagane, sono le due facce del Dio Cornuto, un dio chiamato Cernunno nel politeismo celtico.
Cernunno è il compagno della Dea Madre.
A Lammas (Festa del Raccolto, 1° Agosto), Re Agrifoglio, al culmine della sua potenza, si unisce alla Dea Madre.
Al Solstizio d’Inverno muore, per poi resuscitare in tempo d’Estate.
A Calendimaggio, sarà Re Quercia ad unirsi alla Dea Madre. Poi morirà con l’avvento dell’Estate, pronto a resuscitare al Solstizio invernale.

Questo ciclo Morte-Rinascita si ritrova in altre culture antiche.

Nella cultura Egizia, il Dio Osiride, simbolo della vegetazione e del ciclo naturale, resuscita grazie a suo figlio Horus, che sacrifica il proprio occhio per riportarlo in vita, in quella romana, Attis, compagno di Cibele, viene ucciso dalla dea per gelosia, ma poi rinasce sotto le spoglie di un albero, un pino, solo per citare gli esempi più noti.

Re Agrifoglio

Re Agrifoglio può essere accostato al greco-romano Ade/Plutone, oscuro Signore dell’Aldilà, che si rende colpevole del ratto di Persefone/Proserpina, e della conseguente periodica sterilità dei campi.
O anche a Saturno/Crono, dio del Tempo, dell’apprendimento, dell’attesa.
Non a caso, i Romani, ai tempi dei Saturnali, feste che cadevano nei giorni del Solstizio d’Inverno, onoravano Saturno, nella sua veste di dio dell’Agricoltura, con l’Agrifoglio. E corone di agrifoglio ci si scambiava come dono durante queste festività.
I Saturnali, che duravano circa una settimana, cominciavano intorno al 17 dicembre, e culminavano con il Solstizio d’Inverno.
Al Tempio di Saturno si facevano rituali per la fertilità, che prevedevano anche dei sacrifici.
Anche gli dei Odino e Thor presentano delle affinità con Re Agrifoglio. Odino è un Dio Padre, e attraversa il cielo in sella ad un cavallo a otto zampe. Thor, ugualmente Dio Padre, guida un carro trainato da capre.
I colori di Re Agrifoglio sono il nero, il verde, il rosso e l’oro (2).
La sua pianta, ovviamente, è l’agrifoglio.
Il suo animale è lo scricciolo.
Altre figure sono strettamente connesse con il Re Agrifoglio.
Babbo Natale, in tutte le sue declinazioni, il Cavaliere Verde della tradizione Arturiana, Mordred, che assassinò Re Artù, San Giovanni.

Re Quercia

Re Quercia è invece associato al concetto di crescita e di espansione.
Ha una natura gioviale, in completamento e contrapposizione con la natura saturnina di Re Agrifoglio.
Le divinità che hanno delle similitudini con Re Quercia sono Giove/Zeus, il romano Giano, Dagda, dio della Terra nella tradizione Celtico-Irlandese, Frey, dio nordico della Fertilità, e Pan, divinità del mondo greco, preposta alla fertilità, vitalità e sessualità, la più detestata dal cristianesimo, che ne ha attribuito l’aspetto al loro nemico, il Diavolo
I suoi colori sono il verde, il giallo, il rosso ed il porpora (3).
Le piante sono la Quercia e il Vischio.
L’animale è il pettirosso.
Figure mitiche ad esso associate sono quella di Robin Hood (robin, in inglese, è sia nome proprio sia nome del volatile sacro a re Quercia), Re Artù, il Cavaliere Verde, l’Uomo Verde (4), che è uno Spirito della natura strettamente connesso alla fertilità, tipico del mondo pagano.
Re Quercia regnerà dal Solstizio d’Inverno, che quest’anno avrà luogo il 21 dicembre, alle ore 12 e 20, fino al prossimo Solstizio d’Estate.
Un ciclo finisce, un altro ricomincia.

Buon Solstizio d’Inverno, in nome di Re Quercia, ancora una volta, Vincitore!

Fulvia Marino
Redazione


1 Nella magia simpatica all’agrifoglio è associato Saturno ed alla quercia è associato Giove.
2 Sono colori della trasmutazione alchemica.
3 Colori della trasmutazione alchemica.
4 Ne esistono rappresentazioni scultoree anche a Castel del Monte e nella Cappella di Rosslyn.


Articolo pubblicato su OPUS MINIMUM del Solstizio d’Inverno 2012
Per Info lab.ermetico.filosofico@gmail.com



3 dicembre 2012

- Pitagorismo e Massoneria



Tra le molteplici organizzazioni iniziatiche di cui la Massoneria rivendica l’eredità, una delle più frequentemente citate è l’Ordine Pitagorico. Si sa che la ragione di tale pretesa è la presenza, nel simbolismo massonico, di emblemi utilizzati dai discepoli del maestro di Samo: tra questi, quelli più comunemente citati sono la stella a cinque punte per quanto riguarda la Massoneria latina e il gioiello di Past Master per quanto riguarda quella di lingua inglese. Quest’ultimo gioiello riunisce in realtà due simboli pitagorici importanti: da una parte raffigura la dimostrazione grafica del teorema sul quadrato dell’ipotenusa, e dall’altra questa dimostrazione viene fatta con l’ausilio del triangolo 3-4-5 (1), di cui è nota l’importanza nel Pitagorismo. Beninteso, il fatto che il pentagono stellato non sia necessariamente associato al nome di Pitagora, e che molti dei Massoni latini ignorino perfino che il tracciato di questa figura costituisse il segno di riconoscimento dei Pitagorici, mentre, al contrario, il teorema sul quadrato dell’ipotenusa è universalmente conosciuto sotto il nome di teorema di Pitagora, questo fatto, dicevamo, ha portato alla conseguenza che la Massoneria anglosassone ha mantenuto molto più vivo il ricordo della sua connessione con il Pitagorismo di quanto non abbia fatto la Massoneria latina. La cosa era loro del resto facilitata, perché alcuni degli antichi documenti chiamati Old Charges fanno espressamente menzione di Pitagora come di colui che ha introdotto la Massoneria in Europa. - Eppure, è un Massone italiano oggi deceduto, Arturo Reghini, che ha pubblicato, sui rapporti tra Massoneria e Pitagorismo, la sola opera di valore di cui abbiamo avuto conoscenza (2). Prima di dire tutto ciò che di positivo pensiamo su questo libro dobbiamo formulare una critica, e una critica grave. Il suo autore ignorava totalmente cosa fosse il Cristianesimo, nonostante avesse l’opportunità, grazie alla sua posizione, di conoscerlo bene, almeno sotto una delle sue forme. Ed è troppo poco dire che lo ignorava, poiché ne dava in realtà un’immagine che è una vera e propria caricatura. Come esprimersi altrimenti quando si vede l’autore stigmatizzare «la hantise (3) sessuale che pervade le religioni derivate dall’ebraismo e che nel cristianesimo compare ad esempio nella circoncisione cui è dedicato il primo giorno dell’anno, e nel dogma dell’immacolata concezione» (4)? Questo passaggio è veramente incredibile. È quasi impossibile accumulare più errori in così poche parole. Se i calendari cristiani occidentali portano alla data del 1° gennaio la menzione «Circoncisione», non è per consacrare l’intero anno a un’osservanza mosaica che il Cristianesimo ha, da parte sua, abolito, ma semplicemente perché il Cristo, essendo nato tradizionalmente il 25 dicembre, è stato circonciso, secondo la legge, il 1° gennaio, e perché tutte le Chiese cristiane usano celebrare gli avvenimenti della vita del loro fondatore (5). E la circoncisione è così poco l’effetto di una «ossessione sessuale» d’origine israelitica, che essa è praticata non soltanto dagli Ebrei e dai Musulmani, ma dai popoli più diversi, civilizzati o selvaggi. In Australia, per esempio, al momento dei «riti di pubertà» certe tribù praticano la circoncisione, mentre in alcune tribù si usa cavare un dente; ma non ci pare che le prime di queste tribù siamo più «ossessionate» sessualmente che le seconde. E per quanto riguarda l’Immacolata Concezione, che del resto non è un dogma che nel Cattolicesimo romano, non vediamo in che modo il fatto di credere che la madre di Cristo sia stata esentata dal peccato originale possa avere un qualunque legame con la sessualità. Queste riserve, che ogni uomo di spirito tradizionale fa in modo del tutto naturale, e che un Massone dovrebbe fare a fortiori perché, rispettando tutte le religioni, deve rispettare particolarmente quella a cui appartiene l’immensa maggioranza dei Massoni, non devono impedire di riconoscere i meriti eccezionali del libro di Arturo Reghini. L’autore, se conosceva male il Cristianesimo e la «tradizione monoteista» in generale, aveva per contro una notevole conoscenza delle scienze matematiche (profane e tradizionali), della letteratura e della tradizione greco-latina, e del Pitagorismo in particolare. Aveva anche studiato l’Ermetismo e l’opera di Dante e dei «Fedeli d’Amore». E grazie a questo ha potuto, prima di morire, scrivere quest’opera preziosa, indispensabile a chiunque si interessi tanto alla scienza dei numeri quanto alla dottrina massonica.

Beninteso, un libro di questo genere, che comporta numerose dimostrazioni matematiche e figure geometriche, non si può riassumere. L’autore studia la Tetraktys pitagorica (che assimila al Delta luminoso della Massoneria) (cap. I), il pentalfa (stella a cinque punte) (cap. IV) e la tavola tripartita (che è la tavola di tracciamento) (cap. VI), ossia tre dei simboli fondamentali dei gradi simbolici. Egli esamina a lungo, inoltre, questioni come quella dei «numeri sintetici» (cap. II), dei numeri primi (cap. III), delle potenze aritmetiche (cap. V), della Grande Opera e della palingenesi (ultimo capitolo). Reghini compara lungamente il ternario 1-2-3, che è il solo ternario di numeri successivi nel quale la somma dei due primi numeri (1+2) è uguale al terzo (3), con il «ternario egizio» 3-4-5, solo ternario di numeri successivi in cui la somma dei quadrati dei due primi numeri (9+16) è uguale al quadrato del terzo: 25. Seguono delle considerazioni sulla geometria a una dimensione (simbolo della manifestazione «lineare») e su quella a due dimensioni (simbolo della manifestazione «di superficie» che conduce alla «presa di possesso» della terra). L’autore inoltre spiega tramite il passaggio dal ternario 1-2-3 al ternario 3-4-5 il fatto che le Logge di 1° grado sono «illuminate» dal «Delta luminoso» a tre punte, mentre quelle di 2° grado lo sono dalla «Stella fiammeggiante» a cinque punte (6). Altre considerazioni sono possibili sui numeri 3, 4 e 5, le cui figure geometriche corrispondenti sono il triangolo, il quadrato e il cerchio. In effetti, gli Arabi, che hanno trasmesso la loro numerazione al mondo occidentale, raffigurano la cifra 5 con un cerchio. Nell’«Atalanta fugiens» del rosicruciano Michael Maier, queste tre figure vengono associate al problema ermetico della «quadratura del cerchio», e, secondo alcuni antichi testi, esse sarebbero state particolarmente venerate dai Massoni operativi. È del resto probabile che sia questa la ragione per cui i «quattro santi coronati» furono scelti come patroni secondari della Massoneria, in ragione dei rapporti del numero 4 con il quadrato, della parola «santo» con il triangolo (con riferimento al Dio «tre volte santo») e della corona con il cerchio. L’autore fornisce interessanti dettagli sulla Tetraktys, «nella quale sono compresi tutti i numeri in principio»: si sa che è su di essa che i Pitagorici prestavano giuramento (7). René Guénon ha così spesso parlato di questa figura, «fonte e radice della Natura eterna», che noi ci limiteremo a menzionare, a seguito di quanto riporta Reghini, una domanda tratta dall’«istruzione» dei Pitagorici Acusmatici: «Che cosa vi è nel santuario di Delfi? - La santa Tetraktys, perché in essa è l’armonia in cui risiedono le Sirene». E l’autore precisa che le Sirene, in un’epoca molto remota, simboleggiavano «l’armonia delle sfere» (8).

Sul pentalfa, o stella a cinque punte, il libro che stiamo analizzando mette in luce i rapporti numerici degni di nota che legano tra loro i diversi elementi di questa figura e che le «imprimono il marchio», se così si può dire, della «legge d’armonia». - Questi rapporti sono tali che ogni elemento del pentalfa è la «sezione aurea» di un altro elemento. E l’autore, citando Cantor, sottolinea che questa sezione aurea aveva una grande importanza nell’architettura prima di Pericle.

Il capitolo VI contiene estese considerazioni sulla tavola di tracciamento, o tavola tripartita, che è anche la «chiave delle lettere» (9). L’autore vi riconosce la tavola del matematico Teone da Smirne e mostra i suoi legami con questo sistema di numerazione dei Greci. E, ricordando che la pietra bruta, la pietra cubica e la tavola di tracciamento sono i tre «gioielli immobili», aggiunge che tutti e tre si riferiscono «alla costruzione dei templi che, secondo il rituale, è il compito della massoneria». La tavola di tracciamento «ricorda che questa costruzione esige la conoscenza dei numeri sacri, e, con la sua stessa forma, essa sottolinea l’importanza speciale della divisione ternaria» (p. 116).

L’autore prosegue: «notiamo in fine che la tavola da tracciare dell’antica corporazione muratoria si può associare se non identificare in un modo molto semplice e naturale ma generico e di scarso significato con l’antico abbaco (10) pitagorico, il "deltos", o "mensa pythagorica", più tardi confusa con l’antica tavola pitagorica che sino a pochi anni fa si insegnava ancora nelle scuole elementari» (p. 121). E termina questo passaggio indicando che presso i Romani la parola «mensa» significa allo stesso tempo tavola per il calcolo e tavola per il cibo (11). A. Reghini ricorda anche che la tavola di tracciamento, secondo il rituale d’Apprendista, simboleggia la memoria, ed aggiunge: «La dea della memoria, Mnemosine, è alla testa delle nove muse, le muse che dimostrano le orse a Dante condotto da Apollo mentre Minerva spira (Paradiso, cap. 2). Mnemosine nel mito orfico-pitagorico dei due fiumi o del bivio è la fonte vivificatrice, l’Eunoè dantesco, opposta alla fonte letale del Lete. Inoltre nella concezione platonica la comprensione non è altro che una anamnesi, un ricordo. Se non si tiene presente questo significato della memoria secondo gli antichi, non si vede perché la memoria debba avere per simbolo la tavola da tracciare» (pp. 123).

L’opera contiene un gran numero di considerazioni interessanti sulla musica e sui legami che uniscono quest’arte alla scienza dei numeri. Vi si cita una tradizione riportata da Diogene Laerzio che racconta come Pitagora, «ascoltando i suoni emessi dai martelli di un fabbro che batteva sopra l’incudine, osservò che l’altezza di questi suoni dipendeva dalla grossezza dei martelli, e poi esperimentando con corde egualmente tese tratte da una stessa corda, trovò che al diminuire della lunghezza della corda il suono si elevava, e che si ottenevano dei suoni di cui l’orecchio percepiva l’accordo quando i rapporti delle lunghezze delle corde erano espressi da rapporti numerici semplici» (p. 56). A. Reghini fa notare qui che i rapporti numerici più semplici sono quelli che hanno per elementi i numeri della Tetraktys: 1, 2, 3 e 4, e che le corde della lira di Orfeo o tetracordo di Filolao erano in rapporto 1/2 2/3 3/4. Ma conviene anche notare che la leggenda riportata da Diogene Laerzio attribuisce un’origine «metallurgica» alla musica e particolarmente alla lira, la stessa lira con la quale Apollo regolava i movimenti degli astri, Orfeo appianava la discordia, Arione incantava i delfini e sfuggiva al naufragio e Anfione edificava le mura di Tebe (12).

Dobbiamo ora affrontare un’altra questione. Si sa che la stella a cinque punte o pentalfa era il segno di riconoscimento della scuola pitagorica, cioè il loro simbolo più importante. A. Reghini ricorda che i membri di questa scuola facevano corrispondere a ciascuna delle sommità della figura una delle lettere della parola u g i e i a (salute). E l’autore aggiunge che la salute è per il corpo ciò che l’armonia è per l’essere totale (p. 93); ciò è vero, ma egli sembra non aver notato una particolarità curiosa: ciascuna delle lettere che compongono la parola u g i e i a è una lettera pitagorica: Y, ypsilon (i greca), lettera pitagorica per eccellenza, simbolo delle «due vie della destra e della sinistra», e sotto una forma exoterica, del mito di Ercole tra la virtù e il vizio» (13).

G, gamma, la lettera G della Massoneria, che ha la forma della squadra, simbolo essenziale (con la spirale) del secondo grado, della quale Guénon ha scritto che «rappresenta i due lati dell’angolo dritto del triangolo 3-4-5, che ha (...) un’importanza tutta particolare nella massoneria operativa» (14). I, iota, simbolo universale dell’Unità (15). EI, ossia l’iscrizione misteriosa incisa sulla porta del tempio di Delfi, e che, in risposta all’ingiunzione: «Conosci te stesso», formula esplicitamente la dottrina «solare» dell’Identità Suprema (16). Infine A, alfa, elemento costitutivo del pentalfa, prima lettera dell’alfabeto, che rappresenta il «ritorno alle origini». Il simbolismo della successione di queste sei lettere sarebbe interessante da studiare. Notiamo che esse sono disposte attorno alla stella a cinque punte secondo il senso polare, cosa perfettamente normale in quanto il pitagorismo procede dalla tradizione iperborea (17). D’altra parte, nella Massoneria di lingua inglese, la «preparazione del recipiendario» al secondo grado sembra indicare che i viaggi di questo grado dovevano essere compiuti in senso polare, come del resto era il senso dei viaggi nell’antica Massoneria operativa. Quello che abbiamo detto sulla ragione probabile della scelta della parola à i e i a non ci impedisce di riconoscere l’importanza tutta particolare che aveva la salute, e, generalmente, lo sviluppo corporale, per i Pitagorici. Si sa che lo stesso Pitagora non disdegnava concorrere ai Giochi Olimpici (18), ed il «Padre della Medicina», Ippocrate, stabilì la sua scienza su basi pitagoriche, come lui stesso dichiara espressamente. La scienza di numeri (teoria dei «giorni critici») svolge un importante ruolo in questa medicina che, del resto, era un’ «arte sacerdotale» (esattamente come l’Ayur-Véda degli Indù, con il quale potrebbe essere interessante compararla); e il «giuramento d’Ippocrate», prestato su quattro divinità (Apollo, Esculapio, Igea e Panacea) è esattamente forgiato sulle obbligazioni iniziatiche e comporta, come il giuramento massonico in particolare, tre elementi essenziali: invocazione, impegno, imprecazione (19). Pensiamo che potrebbe essere interessante comparare queste due scienze ereditate dal Pitagorismo: la medicina ippocratica e la Massoneria. E se qualcuno dei nostri lettori trovasse strane queste considerazioni, gli domanderemmo come si potrebbe spiegare il fatto che ogni Loggia operativa contava obbligatoriamente, tra i membri «accettati», un medico (20).

Arturo Reghini cita a più riprese un’espressione dei rituali italiani in cui si parla dei «numeri sacri conosciuti dai soli Massoni», e vi vede molto giustamente l’indizio di una filiazione pitagorica. In Francia, dove non si trova l’espressione citata, crediamo si trovi però un’altra formula altrettanto significativa. Si tratta del saluto che deve essere utilizzato da un Massone quando scriva a uno dei suoi fratelli: «Vi saluto con i numeri misteriosi che conoscete». Questa formula indica chiaramente che i Massoni conoscono la «scienza dei numeri», e che questi numeri non sono i numeri «volgari» dei profani, bensì quei numeri «misteriosi» nei quali i Pitagorici vedevano l’essenza di tutte le cose.

Ma, si potrebbe obiettare, la «scienza dei numeri» non appartiene in modo speciale al Pitagorismo, dal momento che la Kabbala e l’esoterismo islamico ne fanno un uso costante. Ciò è vero ma, come ha fatto notare René Guénon, le tradizioni ebrea e musulmana considerano il numero «aritmeticamente», mentre il Pitagorismo, nato in seno a un popolo sedentario e quindi costruttore, li considera in quanto legati alle forme geometriche: triangolo, cubo, ecc. E lo stesso avviene, evidentemente, nella Massoneria.

A. Reghini cita ancora il silenzio come elemento comune agli Ordini pitagorico e massonico; a dire il vero, quello del silenzio è un tratto comune a tutte le organizzazioni iniziatiche, ma è un fatto che i neofiti pitagorici restavano 3 anni, a volte 5, in silenzio mentre compivano la loro istruzione (21). E questi numeri possono ricordare le «età» dell’Apprendista e del Compagno, che sono soggetti al silenzio durante il loro periodo di probazione. Occorre anche notare che ciascuno dei cinque viaggi del secondo grado è detto rappresentare uno degli anni di studio del neofita.

Cosicché la Massoneria ha, tra i suoi simboli e i suoi usi, molti elementi in comune con il Pitagorismo: Delta, stella fiammeggiante, tavola di tracciamento, triangolo 3-4-5, importanza data al teorema sul quadrato dell’ipotenusa, scienza dei numeri, silenzio di cinque anni, uso dei pasti rituali, importanza data alla salute del corpo (22). Si comprende come l’autore del libro che stiamo esaminando faccia sua l’affermazione dell’arciprete Domenico Angherà: «L’Ordine massonico è la stessa cosa, assolutamente la stessa cosa, dell’Ordine pitagorico». A. Reghini, del resto, sapeva bene che esistono elementi giudaici, gioanniti, templari, rosicruciani, ermetici nella Massoneria; ma, nel suo entusiasmo per il Pitagorismo, egli considera tutti questi elementi come delle aggiunte inutili, e perfino nocive. E questo lo porta a non tenere nella dovuta considerazione il grado di Maestro, nel quale gli elementi salomonici, come si sa, sono predominanti (23).

Da un altro lato, quando si considera che tutte le parole sacre della Massoneria sono ebraiche; che l’era e il calendario massonici sono specificamente giudaici; che il presidente di una Loggia è detto occupare il seggio del re Salomone, e che i suoi due assistenti rappresentano Hiram, re di Tiro e Hiram-Abiff; che le leggende del 3° grado e dei gradi seguenti vertono interamente sugli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato o seguito la costruzione del Tempio di Gerusalemme, si è portati a pensare che il carattere «salomonico» della Massoneria non dia adito ad alcun dubbio. Attraverso il Pitagorismo, la Massoneria si ricollega all’Orfismo e alla tradizione iperborea conservata a Delfi. Ma, nel corso delle epoche, gli apporti della tradizione giudaica prima, e di quella cristiana poi, hanno impresso a essa i suoi caratteri definitivi. Le «leggende» di Salomone, dell’uccisione di Hiram-Abiff e della grande maestria dei due san Giovanni ne sono la testimonianza. E questa «impregnazione» giudaica e soprattutto cristiana ha preparato la via alle numerose eredità che doveva ricevere l’Ordine massonico, eredità di cui la più illustre, la più nobile e la più preziosa è quella dei Templari.

Denys Roman, www.zen-it.com

1. Nel gioiello di Past Master i quadrati costruiti sui lati del triangolo sono in effetti costituiti da damieri di 9, 16 e 25 caselle rispettivamente.
2. Arturo Reghini, «Numeri Sacri e Geometria Pitagorica».
3. «Ossessione», in francese nel testo.
4. Op. cit., pag. 126.
5. Del resto, i primi cristiani hanno cambiato molte volte la data in cui far cominciare l’anno: 25 marzo, 25 dicembre, 1° gennaio, ecc.
6. Op. cit., cap. III. A proposito delle espressioni massoniche 1°, 2° e 3° grado, facciamo notare che la marcia dell’Apprendista traccia una linea retta; quella di Compagno determina un piano; quella di Maestro percorre lo spazio.
7. Al cap. I, l’autore cita le parole di Luciano: «Guarda, quelli che tu credi quattro sono dieci, ed il triangolo perfetto, ed il nostro giuramento». La Massoneria dà alla Tetraktys il nome di Delta; e si noterà che la lettera greca Delta è la quarta lettera dell’alfabeto, che ha la forma di un triangolo e che costituisce l’iniziale della parola «Decas» (dieci). Sulla Tetraktys, ci si può riferire in particolare al capitolo XIV di «Simboli della Scienza Sacra» di R. Guénon.
8. È curioso come le Sirene siano divenute, specialmente in Omero, dei mostri avidi di sangue umano, come se il significato di questo mito orfico-pitagorico si fosse perso già dalla più remota antichità. Alcuni elementi della leggenda omerica potrebbero facilmente essere trasposti in un senso iniziatico; i prati ridenti e fioriti su cui sono sedute le Sirene simboleggiano senza dubbio il cielo stellato; i marinai dalle orecchie riempite di cera sono i profani «qui aures habent et non audient»; le corde che legano i piedi e le mani di Ulisse all’albero della barca simboleggiano forse la rinuncia all’azione dell’essere che segue la via, assimilandosi così all’asse del mondo. Il canto «celeste» delle Sirene è anch’esso piuttosto significativo, dal momento che esse dicono di «conoscere tutto ciò che avviene in questo vasto Universo».
9. Tavola tripartita si dice in inglese «tiercel board», che è divenuto «trestle board» e «tracing board».
10. Questa parola designa: la tavoletta quadrata che costituisce la parte superiore di un capitello; una macchina usata dai Romani per il calcolo; uno scaffale per stoviglie e un catino per lavare l’oro. La parola abaco evoca l’architettura, la scienza dei numeri, il pasto e la metallurgia dell’oro. D’altra parte la parola calcolo designa non solo l’arte di contare, ma anche ogni pietra situata all’interno del corpo umano (e che simboleggia così la «pietra nascosta dei saggi»).
11. Sui rapporti veramente curiosi che esistono tra la tavola tripartita e la tavola da pranzo, citiamo il passaggio seguente, tratto da «La Vita privata degli Antichi» di René Ménard: «I Romani facevano tre pasti al giorno. Il più importante era la cena ("caena") che si svolgeva quando gli affari erano terminati. La cena doveva comprendere tre portate. Vi erano normalmente tre letti per ciascun tavolo: ciò si chiamava "triclinium". Il "triclinium" regolare era disposto per tre persone. Vi era un ordine determinato per la posizione dei convitati. I letti erano disposti su tre lati della tavola, mentre il quarto lato era riservato per le necessità di servizio. Il pitagorico Varrone. in un’opera perduta di cui Aulo Gellio ci ha conservato dei frammenti. dice che il numero dei convitati deve cominciare da quello delle Grazie e finire a quello delle Muse, ossia che è necessario essere almeno tre, ma mai più di nove». È inutile sottolineare l’analogia che esiste tra la disposizione dei seggi in una «tavolata di Loggia» e quella del «triclinium»; la sola differenza che esiste è che gli antichi mangiavano sdraiati.
12. Sulla lira di Anfione, cfr. «Il Re del Mondo», cap XI. Per quanto riguarda i rapporti tra Tebe e la Thebah ebraica, cfr. ibid. A proposito del ruolo del fabbro nella costruzione della lira di Pitagora, occorre ricordare che la Bibbia (Gen. IV, 21-22) considera fratelli Jubal «padre di quelli che suonano l’arpa» e Tubalcaïn, che per primo lavorò i metalli. Si conosce il ruolo importante che quest’ultimo riveste nel simbolismo massonico. In molte Logge americane (non sappiamo se sia lo stesso in Inghilterra), figura una tavola rappresentante la storia del fabbro e di re Salomone; questa importante storia sembra fare allusione a una certa «reintegrazione» dell’arte metallurgica, di cui si conosce il carattere allo stesso tempo pericoloso e sacro.
13. «Simboli della Scienza Sacra», cap. XVIII e XXXVII.
14. Ibid., cap. XVII.
15. Cfr. «La Grande Triade», cap. XXV.
16. È stato A. K. Coomaraswamy ad esporre per la prima volta, nella Review of Religion, il significato che Plutarco non aveva che intravisto... o che non aveva voluto divulgare (Cfr. la recensione di René Guénon in Études Traditionnelles, ottobre 1946).
17. Si dice che Pitagora avesse addomesticato un’orsa che obbediva alla sua voce. Sui legami del Pitagorismo con il culto delfico dell’Apollo iperboreo (il Dio geometra), cfr. «La Crisi del Mondo Moderno», cap. I.
18. Tutti i giochi della Grecia antica avevano del resto un evidente carattere tradizionale: i vincitori di Olimpia, che ritornavano nella loro patria «attraverso la breccia dei muri», simboleggiavano senza dubbio la necessità della «violenza» per riconquistare il «paese natale», che è il «regno dei cieli».
19. I «Fedeli d’Amore» nel terzo grado della loro gerarchia possedevano un rito chiamato saluto (in francese «salut») o salute («brindisi», in francese «santé»). È assai curioso che queste due parole siano rimaste i due elementi essenziali del rituale della «tavolata di Loggia». Sembra anche che il numero dei brindisi, che ha variato molto nel corso degli anni, dovesse essere regolarmente di cinque; per l’ultimo di questi brindisi, nelle Logge anglosassoni, si utilizza una formula che risale a un’epoca remota, e che invoca il «ritorno al paese natale». E tutto quello che avviene dopo questo brindisi è considerato come «extra-massonico», come a voler suggerire che con questo ritorno, gli «obiettivi della Massoneria» sono raggiunti.
20. Cfr. «Considerazioni sull’iniziazione», cap. XXIX.
21. «Philosophumena», II.
22. Vi è un elemento molto importante nell’ascesi pitagorica che ci si stupisce di non trovare nella Massoneria attuale: si tratta della musica. La Massoneria operativa che utilizzava, come il Compagnonaggio, numerose canzoni, possedeva forse certi canti, con un ritmo particolare, capaci di mettere il cantore in comunione con «l’armonia delle sfere»? È possibile; ma ciò che è giunto fino a noi, almeno in Francia, riguardo alle canzoni massoniche è di un livello tale che preferiamo non parlarne.
23. A. Reghini sembra pensare che il grado di Maestro sia stato introdotto dopo il 1717 perché, egli dice, le Costituzioni di Anderson lo ignorano. Può ben darsi che Anderson abbia ignorato questo grado, ma in ogni caso gli elementi di tale grado esistevano ben prima del XVIII secolo, dal momento che la Massoneria operativa aveva un carattere salomonico molto pronunciato.

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