15 ottobre 2013

- Il Cristo velato della Cappella Sansevero.




UN VELO DI LUCE …
UN GUSCIO, PIENO DI VITA …

L’opera e l’autore
Elviro Langella Redattore di Opus minimum


… Questo Tempietto sarà di figura ovale, mostrerà di essere scavato in una roccia e prenderà bastantissimo lume da una Cupola, nella quale saranno aperte alcune finestre
 … Or in mezzo di questo Tempietto appunto, ove sarà collocata la statua di marmo al naturale di nostro Signore Gesù Cristo morto, involta in un velo trasparente pur dello stesso marmo ma fatto con tal perizia che arriva ad ingannare gli occhi de' più accurati osservatori e rende celebre al mondo il giovine nostro Napolitano Signor Giuseppe Sammartino, uno de' miei scultori di cui essa è opera, verranno ad essere situati i detti due lumi eterni, uno al capo e l'altro a' piedi della suddetta Statua; e saranno situati sopra due candelabri di marmo …
… I motivi che a far questo mi spingono sono due: il primo affinché, non abbiano i lumi l’antico nome di lucerne, ma quello di candele; il secondo, affinché si lascino in libertà gli scettici nelle materie fisiche di poterle passare da banda a banda, dove meglio loro piacerà, con una lesina infocata, e rendersi interamente persuasi della schiettezza dell’affare, e dell’esclusione di qualunque nascosto inganno…

Raimondo di Sangro, lettera a Giovanni Giraldi

Giuseppe Sanmartino apprese i rudimenti dell’arte presso la bottega di un modellatore di pastori, Felice Bottiglieri, fratello del ben più noto Matteo. Egli stesso creò statuine di insuperata espressività destinate a quel singolare genere presepiale che nel ‘700 assurgeva a pieno merito, ai nobili ranghi di quelle arti che godono oggi di maggiore considerazione, forse unicamente in nome di infondati pregiudizi. Pur muovendo i primi passi dentro il contenuto orizzonte del microcosmo inscenato dal presepio, la formazione dell’artista poteva, nondimeno, ambire alla piena affermazione del proprio talento nelle arti plastiche, spaziando nel clima fecondo di opportunità, che vede all’opera, in quello scorcio di secolo, valide maestranze come Antonio Corradini, Francesco Queirolo, Francesco Celebrano, Paolo Persico e ancor prima,Lorenzo Vaccaro e il figlio Domenico Antonio, Matteo Bottiglieri, Nicola Fumo e Giacomo Colombo.
Benché oramai autore espertissimo di pregevoli sculture in marmo negli anni dell’incontro con don Raimondo,  per il quale aveva già eseguito tra il 1746 e il ‘48  gli otto bassorilievi in stucco per l’androne del palazzo Sansevero in Piazza San Domenico Maggiore [1], sarebbe ingenuo supporre che il giovane Giuseppe Sanmartino, dovendo attenersi scrupolosamente ai dettami del suo esigente committente, non tenesse in cima ai propri pensieri l’esempio dei contemporanei che si erano cimentati con un così impegnativo soggetto d’arte sacra raggiungendo risultati di inarrivabile bellezza.  
Il Principe richiedeva espressamente una “statua scolpita in marmo di Nostro Signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo”, della quale l’artista massone Antonio Corradini aveva già lasciato lo straordinario bozzetto in terracotta oggi al Museo di San Martino, vero testamento spirituale a suggello di quel geniale, indissolubile connubio tra l’Arte e gli ideali massonici celebrato dalla Cappella gentilizia.
Alle radici della autentica ispirazione del Sanmartino.
Seguiamo le tracce di una linea di continuità estetica
Non senza timore di scoprirsi inadeguato a seguire le orme di un tale titano, il Sanmartino in quella difficile impresa avrebbe mai potuto esimersi dal confrontarsi, al contempo, coi suoi propri maestri?
Il superbo modello del Cristo deposto, scolpito per il duomo di Capua da Matteo Bottiglieri, si imponeva come lezione imprescindibile.
Non manca chi, commentando un tal prodigio dell’arte, nel redigere la guida del sito [2], attribuisce erroneamente l’opera al Bernini per la pregevole fattura e l’ispirazione in tutto coerente ai suoi canoni estetici. Talvolta, si azzarda l’ipotesi che il bozzetto pur conforme allo stile del nostro grande scultore barocco, sia da attribuire piuttosto, a Francesco Solimena.
Nel suo libro, L’Art dans l’Italie meridionale, Emile Bertaux lo definirà “une des oeuvres les plus saissantes de l’ecole du Bernin”[3].
Potremmo mai negare del resto quanto certe soluzioni plastiche siano qui debitrici al genio inventivo del maestro?
Ne è prova l’irresistibile tensione dinamica che percorre il torso del Cristo, tutt’altro che disanimato pur nell’estremo abbandono, ottenuta inarcando la figura con l’escamotage dei cuscini, che non hanno affatto un’accessoria funzione decorativa, al pari dei sapienti panneggi berniniani.
Quelle stoffe animate da un vento, da un fuoco di misteriosa provenienza,  sollecitano empaticamente il nostro immaginario tattile, generando con la loro energia plastica l’illusione di “superfici sensibili”, emozionali, spazi propulsivi, di “inversioni dinamiche”, per usare l’espressione coniata da Aby Warburg.
Molto opportunamente c’è chi ha fatto notare che qualora, per assurdo, ci fosse consentita l’impudenza di irrompere nel rapimento estatico della beata Ludovica Albertoni e spogliarla dello stupendo panneggio del Bernini, il corpo rivelerebbe una postura in tutto simile al Cristo deposto del Bottiglieri [4]. E ripercorrendo il segreto file rouge che dovette certamente orientare l’ispirazione del Sanmartino, non si può fare a meno di riconoscere quanta verità contenga la sorprendente definizione, all’apparenza riduttiva, che Mario Salmi dà del Cristo velato: “una ripresa rococò della Ludovica Albertoni”.
Se da un canto è impossibile non cogliere l’evidente linea di continuità della ricerca estetica, che approderà al Cristo velato del Sansevero, passando imprescindibilmente dalla lezione impartita da Matteo Bottiglieri, mi riesce altrettanto impensabile sottovalutare il ruolo svolto nella nostra analisi filologica da un artista assai spesso, a torto, trascurato.
Si tratta dello scultore procidano Carmine Lantriceni, i cui principali modelli di riferimento ideologico vanno ricercati proprio negli esiti figurativi di Bottiglieri e Vaccaro (del secondo decennio del ‘700), sebbene rivisitati con la carica espressiva e i forti accenti cromatici d’influenza spagnola che pervadevano intimamente la nostra locale sensibilità artistica.
La portata del Lantriceni nel più vasto panorama della scultura napoletana può essere apprezzata nell’attenta analisi condotta da Flavia Petrella, Ispettrice della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Napoli, in occasione dei restauri del suo Cristo ligneo conservato nella Chiesa di San Tommaso d’Aquino di Procida.

Riportando alla luce l’innegabile dignità artistica di questo “eccellente esemplare, degno dei migliori prodotti della scultura del Settecento napoletana”,  passato incomprensibilmente per lungo tempo sotto silenzio, la studiosa così si esprime:
“Si viene a delineare per l’autore della statua procidana un’area culturale di cui, pur se ignoto, partecipa con pari capacità tecniche ed artistiche, contribuendo alla definizione degli orientamenti tardo-barocchi napoletani”.
Alla luce di questi due autorevoli, indispensabili modelli di riferimento alle radici della più autentica ispirazione del Sanmartino, corre per me l’obbligo morale di denunciare l’attuale deplorevole stato di abbandono in cui versa il Cristo morto di Matteo Bottiglieri, situato nella cripta del Duomo di Capua. Eclissandone perpetuamente al pubblico la bellezza, l’inaccessibile sacello imprigiona questo indubitabile capolavoro come una lugubre tomba.  L’inaccessibilità di un’opera così pregevole rischia di condannarla ad un oblio non meno ingrato di quello incombente sul Cristo morto dello sfortunato Carmine Lantriceni, relegato dalla lacunosa smemoratezza della posterità, a scontare un ingiusto anonimato.
Per quanto incredibile, in virtù di una curiosa nemesi, ogni anno puntualmente da ben tre secoli, questa scultura quasi tramando l’intenzionale rivincita sul mondo, irrompe fisicamente in mezzo all’intera comunità isolana partenopea per reincarnarsi sotto la preziosa sindone del velo nero, nel mezzo della cornice coreografica di una tra le più antiche e creative rivisitazioni popolari dei riti dei Misteri, rappresentati da decine di monumentali installazioni disegnate e scolpite da 300 straordinari giovani procidani.
Quest’opera mostra fino a qual segno i nuovi influssi iberici arrivarono ad umanizzare la magniloquenza barocca enfatizzando l’espressione della figura con un vibrante “pietismo” di debordante impatto emotivo: il volto riverso, gli occhi semichiusi, le piaghe. 
Tali effetti drammatici, che il Lantriceni ottenne con l’aiuto della policromia che insanguina il corpo muscoloso, sono il frutto di una contaminazione stilistica che rimanda alla lunga attività di Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto, a Napoli, al suo caravaggismo brutale, al lungo influsso che esercitò nell’ambiente artistico locale.
Se per puro esercizio accademico, allargando il nostro orizzonte storico di riferimento, suggerissimo il confronto della nostra opera con un precedente artistico emblematico dell’ideologia estetica legata alla prospettiva lineare del ‘400, non sfuggirebbe quanto la rigorosa gabbia prospettica in cui Mantegna più che dipingere, sembra scolpire il Cristo morto, pervenga ad un effetto visivo diametralmente opposto alla fluidità dell’ondoso velo del Sanmartino. Qui, il canone della “forma aperta” ispira le duttili inversioni dinamiche modellate fin nelle intime pieghe delle superfici plastiche.
Lo scultore sa servirsi di tale preziosa eredità barocca, per distogliere il riguardante dall’insopportabile rigor mortis, dalla svilente suggestione di trovarsi ad assistere al finale definitivo posto in scena dal dramma sacro, senza speranza alcuna di riscatto.
Fa da contraltare, la costruzione cartesiana dello spazio in cui Mantegna “scolpisce”, invece, i contorni della figura con precisione degna di un trattato scientifico epocale.
Se non proprio di un trattato di Anatomia come quelli specialistici di Vesalio o piuttosto, di Leonardo, sicuramente di Prospettiva centrale. Disciplina che egli mostra di sapere non solo applicare alla rivoluzione spaziale operata dal ‘400, ma anche epurare da quelle inevitabili aberrazioni ottiche derivanti da meccaniche costruzioni di geometria teorica, in conflitto col linguaggio delle arti visive.
Intenzionalmente, il pittore diverge in quest’opera dal tema della sublimazione della morte che pervaderà invece, intimamente l’animo del Sansevero nel commissionare il Cristo velato al Sanmartino.
Mantegna sposta cronologicamente la narrazione pittorica al momento del compianto di Maria. Rintanata in un angolo eppure incombente con la sua espressività implacabilmente invecchiata da rughe di umana disperazione, ella piange sul destino caduco del corpo mortale in cui un imperscrutabile Dio aveva pur deciso di incarnarsi.
Sarebbe più giusto a mio avviso, ricordare la celeberrima tempera della pinacoteca di Brera per il vero soggetto di fatto rappresentato e col suo titolo più pertinente che recita, il compianto di tre dolenti sul Cristo morto.
L’ammirazione e lo stupore di Antonio Canova
Se, da una parte, la vena patetica che impregna l’ispirazione del Cristo del Sanmartino, ha suscitato innegabilmente da sempre un’intima sintonia nel diffuso misticismo popolare, non ci aiuta però a penetrare più di tanto la profonda essenza di tale inedita bellezza.
È lecito chiedersi a tal proposito, la vera ragione che motivava l’entusiastica ammirazione provata nei confronti del Cristo velato da Antonio Canova, il cui giudizio sopra ogni altro è da prendere in considerazione incondizionatamente, per l’indiscusso genio e la competenza artistica.
Cos’altro lo scultore neoclassico intuiva oltre quei veli di tale ineffabile fattura da eclissare finanche l’audace capolavoro del Corradini, la Dama velata posta a coronamento del sepolcro materno?
Basta invocare da sola la “poetica degli affetti” cara al sentimento dello scultore neoclassico, per far pendere il giudizio a favore della scultura del Sanmartino verso la quale mostrò la più sconfinata venerazione?
Innegabilmente, l’opera pervasa di humana pietas rivendica, a giusto diritto, la raggiunta armonia tra ideali etici ed estetici.
Accantonando gli accenti retorici e l’ostentata monumentalità del Barocco trionfante, lo scultore sperimenta una ricerca più intima, mirata ad “una comprensione sensibilizzata ed interiore, grazie all’uso di una materia vibrante” [5].
Non è difficile immaginare di quali opportunità potesse giovarsi il Corradini nello studio diretto dei modelli classici, considerando i reperti recuperati all’antico splendore che giungevano a Venezia pullulante di antiquari, crocevia di traffici e culture.
Lo stesso virtuosismo del drappeggio bagnato di ascendenza ellenica, cifra inconfondibile dello scultore veneziano evocata nelle sue ricorrenti velate, sembra debitore dell’impagabile lezione derivata dall’esperienza dell’antico, ove le forme anatomiche si stagliano ineffabili e sensuali, per niente dissimulate, bensì esaltate e perfettamente leggibili, dentro le trasparenti increspature del tessuto.
Proprio come accade sulle tornite membra d’alabastro della Pudicizia nel tripudio degli alchemici lucori della celebrata Cappella napoletana, che discende dall’ispirazione della Vestale Tuccia dello stesso Corradini. Sfortunatissima sorella condannata invece, dagli impietosi rovesci della sorte ad una triste clausura, rinchiusa vergognosamente dentro i bui recessi di Palazzo Barberini di Roma!
Pur prescindendo dal paragone col prototipo in terracotta del Corradini, non potendo indovinare gli esiti finali della trasposizione marmorea, è facile constatare come il velo del Sanmartino non sia percepito dal pubblico, anche il più disattento, quale semplice, meccanica sovrapposizione del panneggio alle nude membra.
Quell’insolita sindone che nulla occulta al nostro sguardo, si mostra d’un tessuto sottile al punto di dissolversi in un’avvolgente eppur straziante carezza.
Il velo qui, a differenza dalla Pudicizia, fa tutt’uno con la carne.
Non risulterebbe affatto ozioso, a mio avviso, approfondire più in dettaglio il raffronto puramente tecnico con una famosa opera del Canova, Ercole e Lica, oggi al Palazzo Corsini [6].
Ecco il velo di luce, pieno di vita

L’esaltazione neoclassica della nuda anatomia dell’eroe, in un soggetto di tale inedito pathos per lo scultore così apollineo, concede eccezionalmente spazio all’intrusione di un elemento apparentemente accessorio: un invisibile velo che stirandosi aderentissimo alla pelle, insinua le fitte increspature lungo i profili scavati dalle masse muscolari di questo gigante di marmo, facendo affiorare tangibilmente la lacerazione delle carni per effetto del veleno di cui è intrisa la camicia del centauro Nesso.
Contravvenendo agli antichi, autorevoli dettami di Leonardo da Vinci, il trattamento del tessuto, pur sottilissimo, svolge una funzione estetica autoreferenziale affrancata dal corpo del Cristo velato che pur dovrebbe rivestire, eccitando le forme con una speciale vibrazione vitale.
Tutt’altro che inerte pellicola superficiale sapientemente plasmata nel modellato stesso della figura, questa nuova epidermide può registrare quel fremito che pulsa sotto la cute, talvolta allo spasimo, arrivando a disfarsi persino, assieme alla stessa materia organica. Un tale dissolvimento però, niente ha del greve, irreversibile abbandono del rigor mortis.
La materia, piuttosto, sublima in una resa ancor più preziosa dell’incarnato e riprende a vivere nel marmo, resuscitata dallo scalpello dello scultore. Egli sa conferire forma plastica alle invisibili correnti che in forza della feconda lezione del Barocco, animano nel corpo deposto del martire una segreta pulsione di vita, ancorché immerso nel torpore della morte, arrivando a distillare inimmaginabili effetti di rarefazione e liquefazione della luce.
Ove il velo ammanta il Cristo di quella divina caligine, che pur senza interporre alcun diaframma, offusca tuttavia lo sguardo profano con l’inaccessibile luce donata al marmo dall’artista autenticamente ispirato. Vero inestricabile ossimoro visivo agli occhi del non iniziato!
Sotto questa luce, mi è impossibile tacere la suggestione delle inesauribili metafore passate fin qui sotto silenzio, che annidano ancora inedite, dentro questo marmo la cui quiddità è ben lungi dall’essere definitivamente svelata.
Un’interessante rilettura potrebbe derivarne allo studioso desideroso di spingersi ancor oltre, l’ulteriore approfondimento in chiave esoterica del contesto e dei dettagli figurativi.
Raffrontati, ad esempio, al simbolismo degli stadi iniziatici connessi al perfezionamento dei “gradi templari” dei Cavalieri del Delta Sacro, che approda alla Massoneria del XVIII secolo, facendo rifiorire, a dispetto dei secoli, insospettate affinità tra l’ermetismo e i Fedeli d’Amore [7].
Il linguaggio dei Fedeli d’Amore ci apre la mente al significato iniziatico
Mi limito qui a suggerire alcuni spunti interpretativi connessi all’immagine del Cristo rinvenibili ad esempio,  oltre il velame del verso dantesco.
Una volta addentrati nel simbolismo esoterico, familiarizzando con l’allusivo argot dei Fedeli d’Amore, è possibile scoprire come dietro la figura di Gesù, alla stregua di Beatrice stessa, traspaiano insospettati significati iniziatici indubitabilmente riferibili a gerarchie settarie.
Ne cogliamo eloquenti tracce in passi come questo: “… Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse maturato … vivette ottantuno anno … E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e fosse vissuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli sarebbe ali ottantuno anno di mortale corpo in eternale trasmutato.” (Dante, Convivio IV, XXIV)
È evidente che siamo di fronte ad un passo di astrusa decifrazione.  In verità, le ardite congetture avanzate da Dante sull’ipotetica età di Cristo, non costituiscono affatto un ozioso esercizio di calcolo. Piuttosto, nel registro linguistico così esclusivo del fedele d’amore, l’età di 81 anni vuol rappresentare l’età rituale. Non è superfluo, in proposito, ribadire quale importanza annetta il poeta al numero tre ed al nove che ne sono la radice, e con quanta frequenza il numero nove ricorra nella Vita Nuova.
Eppure, come non accorgersi dell’inspiegabile affinità col simbolismo dei gradi “gradi templari” della Massoneria fondati sul numero tre e le sue potenze emblematizzati, ad esempio, dal Delta sacro o Delta luminoso.
Né possiamo ignorare l’importanza del risorgente simbolismo di questa cifra chiave trasmigrata anche nel Grado di Maestro Scozzese del sistema descritto dal principe di Sansevero, ove “il riferimento al numero 81 cubo di 9, corrisponde al numero dei Maestri scelti da Salomone per proseguire la costruzione del Tempio sotto la direzione di Adonhiram”. (Sigfrido Höbel, Opus Minimum equinozio di primavera 2010 pag 29)
Fiduciosi dell’attenzione accordataci dal nostro lettore, indugiamo un momento sull’opera del Sanmartino nell’intento di portare in luce ulteriori insospettate concordanze col simbolismo e con la terminologia ermetica.
Riguardandola ancora in questa prospettiva esegetica, dietro l’inquietante letto di morte scolpito nel marmo, ci sarà dato scorgere qualcosa di ben diverso dal triste feretro ove il corpo esanime di Gesù deposto chiude inesorabilmente l’ultimo atto dell’agonia sul Golgota.
A ben guardare, non mi sembra azzardato indovinare una metafora ben più sottile, l’allegoria stessa del “letto di Dio”.
Alcova feconda di raptus amorosi, pregna d’infuocato mistero e di alchemiche trasmutazioni, ove si consuma la coniunctio per antonomasia, l’amplesso tra l’anima e Dio.
 La trasposizione lirica di un tal simbolismo, in perfetta sintonia col pensiero dei Fedeli d’Amore, a mio avviso, trova chiara eco nelle Laude di Jacopone da Todi. (LXXI cantico)[8].
A torto liquidato come “giullare di Dio”, confinato nei propri mistici, contriti vagheggiamenti, e invece, niente affatto ingenuo e popolaresco, Jacopone non manca di fornire interessanti chiavi per meglio intendere ogni dettaglio a corredo del nostro letto simbolico, dietro i quali il dotto poeta giunge a ravvisare con inaspettata dimestichezza col linguaggio ermetico, intenzionali riferimenti ai gradi di una vera iniziazione rituale dissimulata talvolta, sotto il velo d’una mistica pazzia alla quale si perviene sull’onda gioiosa di una danza altrettanto esaltante. 
Questi gradi sono quattro; liquefatio che si oppone alla congelazione, languor, zelus, excessus mentis. (Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore pp 97/191)
Espressioni queste mutuate dal linguaggio alchemico che designano “i gradi e la virtude del vero amore” quali ritroviamo fedelmente enunciati nelle rime amorose di Nicolò de’ Rossi, intimamente pervase di esoterismo.
Nel quarto, l’Intelletto attingendo alle più profonde energie della fantasia creatrice attraverso la progressiva astrazione e disarticolazione delle ordinarie percezioni terrene, perviene infine, alla somma gerarchia della virtude del vero amore mediante l’estasi.
Coinvolti per irresistibile empatia, nella trance dell’esemplare sacrificio incarnato dalla passione del Cristo del Sansevero, in questo stadio finale di perfezionamento sapienziale, ci riscopriamo imbozzolati dentro il velo o piuttosto, la sindone o il sottilissimo lenzuolo cantato dalla laude di Jacopone, quasi fossimo rapiti nel nido della Fenice, in attesa di prodigiosi risvegli e disvelamenti. Meglio non saprei definire un tal velo ardente di alchemico fuoco trasmutatorio, se non con la calzante espressione di Ignis amoris coniata da Giuliano Kremmerz.
Si sta svelando il mistero della nascita
La poetica figurativa della scultura del Sansevero sembra prediligere una dimensione fenomenica assai singolare.
Se, da un canto, l’arredo plastico di veli e reti ordite di intricatissimi nodi rischia di teatralizzare le opere in un vacuo virtuosismo echeggiante le scenografiche macchine seicentesche, dall’altro dota la scultura di un’interessante dialettica formale, giocata tra le figure e i diversificati involucri che di volta in volta le imbozzolano.
Questa dimensione di complementarità assunta dall’immagine rispetto al blocco di marmo dal quale prenderà vita, non avrebbe certo mancato di suggerire a studiosi come Cesare Brandi, illuminanti paragoni con la concezione filosofica michelangiolesca della scultura fondata appunto sulla dialettica tra la forma e la materia che la imprigiona.
Quell’Idea primigenia incapsulata nel marmo, e ad esso platonicamente preesistente, esemplarmente riassunta nei famosi Prigioni.
Si potrebbe meglio rappresentare l’eventicità del processo creativo?
L’epifania dell’Opera attraverso la segreta gestazione all’interno della pietra grezza del blocco marmoreo?
Il travaglio dell’artista combattuto tra i folgoranti vaticini dell’ispirazione e gli inesprimibili concetti che premono dentro l’anima inquieta?
L’incessante dialettica dei suoi più intimi pensieri mentre ascendono alla visione interiore dell’Arte? 
Forse, suona alquanto audace l’accostamento della poetica michelangiolesca che trova il suo più eloquente enunciato nella tecnica del non finito, a confronto dell’estrema levigatura dei  raffinati dettagli portati oltre il segno della più iperrealistica resa del vero, così come è dato cogliere negli accuratissimi cordami che imprigionano il Disinganno o piuttosto, nei veli che scivolano diafani sulla genealogia lapidaria del principe.
Nondimeno queste due vie opposte dell’Arte del non finito e dell’iper-finito, ci spingono a riflettere su una semplice verità: l’atto del guardare ha per sua natura, una profonda radice spirituale.
La visione artistica esige un’intensità e una ritualità dello sguardo perché sia concesso di penetrare il velo di Maya.
Solo in virtù di questa intuizione, di questo dolce lume poteva rivelarsi a Michelangelo la sua creatura assopita nel blocco di pietra grezza in attesa di venire al mondo.

… tra i’l foco e ‘l cor di ghiaccia un vel s’asconde
che ‘l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all’opre, e fa bugiardo il foglio.[9] 

 Ancora invischiato in tanta dissacrante incultura del nostro tempo, lo sguardo superficiale rischia di scivolare sulla fredda, impenetrabile scorza esteriore del marmo.
Come illudersi di riuscire a spingersi oltre con tali occhi ancor contaminati, per cogliere l’anima palpitante dormiente sotto i veli?
Eppure, in questi tre secoli mai ella smise di sussurrare quei sublimi, segreti divisamenti ancora echeggianti tra i marmi del Sansevero, che infiammarono il principe e l’artista-iniziato, e che rimarranno, ahimè, eternamente inaccessibili a quanti non hanno orecchi per ascoltare. 






 1- Tra cui un bassorilievo raffigurante un Cristo deposto che “si trova nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Casacalenda nel Molise, probabilmente, scolpito intorno al 1744 su commissione della duchessa Anna di Sangro di Casacalenda, cugina di Raimondo”.
Rosanna Cioffi, La Cappella Sansevero, Arte barocca e ideologia massonica pag 50

2- Guida d’Italia del Touring Club Italiano ed. 1981

3- Emile Bertaux, L’Art dans l’Italie meridionale - pag 606

4- Giuseppe Alparone, Note sul Cristo velato nella Cappella Sansevero a Napoli. 1957 In Bollettino d'arte / Ministero della pubblica istruzione, Direzione generale delle antichità e belle arti.

5- “ … Siamo negli anni in cui le esperienze del Barocco sono ancora vitali ma gli orientamenti culturali cominciano a stemperarsi in un clima di rinnovate suggestioni, che smorzano il vigore, la foga e gli eccessi celebrativi del Barocco trionfante a favore di più distesi accenti naturalistici …” Flavia Petrella (Ispettrice della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Napoli).

6- Attraversando le più alterne vicende storiche tra il 1795 e il 1815 che ne hanno radicalmente ribaltato più volte il significato politico-simbolico, l’opera venne inizialmente commissionata al Canova da Onorato Gaetani dei principi d'Aragona, maggiordomo del re di Napoli.

7- I Prìncipi di Mercede «pervengono mediante la loro triplice virtù a sollevare il velo della verità»; e si chiamano perciò beni émeth, i figli della Verità. Tra i simboli caratteristici del grado figura il Palladio dell'Ordine, ossia «la statua della Verità, ignuda e coperta di un velo tricolore»…Il linguaggio
segreto dei “Fedeli d’Amore”, Pietro Negri [pseudonimo di Arturo Reghini] in Introduzione alla Magia, Edizioni Mediterranee, Roma, 1971 - vol. II, pp. 96-105.  Nel Rito Scozzese si ritrovano nel XXVI grado.

8- Ipotesi che trova puntuale riscontro già nelle illuminanti chiose della raccolta editata nel 1617, delle Poesie spirituali del B. Iacopone da Todi frate minore, accresciute di molti altri suoi cantici novamente ritrovati, che non erano venuti in luce … con le scolie, et annotationi di Fra Francesco Tresatti da Lugnano, editato in Venetia, appresso Nicolò Misserini . MDCXVII

9- Michelangelo Buonarroti, Rime.

9 ottobre 2013

Cappella Sansevero - Opus Minimum





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