30 marzo 2012

- DANTE E I FEDELI D'AMORE

Affrontare la tematica dei rapporti tra Dante e i Fedeli d'Amore vuol dire calarsi in una complessa realtà storica, sociale culturale, politica e religiosa e vuol dire anche e soprattutto venire a contatto con una "Organizzazione" a carattere esoterico. La realtà medievale è lo sfondo scenico sul quale si muovono i personaggi che ci interessano.
Le forze animatrici di questo mondo emergente dalla grande crisi della "romanità", sono:
- da una parte, il potere della Chiesa cattolica che, oltre che sul piano spirituale, si dispiegava anche sul piano temporale e si caratterizzava, perciò, non solo per l'imposizione della dottrina cattolica in termini rigorosamente dogmatici, sotto il terribile controllo dell'Inquisizione (istituita da Gregorio IX [Ugo de'Segni 1227-1241] nel 1231), ma anche per la sua ingerenza in tutti gli affari pubblici e privati;
- da un'altra parte, il potere imperiale, che proprio nel periodo da noi considerato, seconda metà del XIII secolo, attraversava una grave crisi, che sfociò in una prolungata vacanza del trono con tutte le conseguenze, relative al frammentarsi delle influenze politiche e al deterioramento e decadimento dei concetti basilari del neouniversalismo del Sacro Romano Impero;
- da un'altra parte, infine, le autonomie comunali che si andavano affermando, destreggiandosi con alterna fortuna tra le due grandi Istituzioni della Chiesa e dell'Impero.
In questa composita realtà andremo insieme a ricercare, per ben individuarli, i rapporti tra Dante e i Fedeli d'Amore. Scopriremo insieme i frammenti di quelle concezioni iniziatiche, manifestatesi in un originale fenomeno, fecondo di stimoli rinnovatori dei tempi e che oltre al suo peculiare contributo di idee, ha dato all'Italia una nuova, durevole e unitaria espressione d'arte e di linguaggio che va sotto il nome di "Dolce Stil Novo". Allo stato attuale degli studi in materia, i rapporti tra Dante e i Fedeli d'Amore sono ancora molto poco conosciuti. Si constata, per altro, che la storia della letteratura italiana, particolarmente nei suoi riflessi scolastici, sia universitari che di livello inferiore, non solo non si occupa minimamente della "questione" dei Fedeli d'Amore, ma ne sottace qualunque sia pure elementare riferimento. L'esistenza dei Fedeli d'Amore, ad onta delle reticenze dubbiose di molti critici accademici, è, tuttavia, incontrovertibile, giacché lo stesso Dante ne fa menzione in ben sette occasioni, a dire solo di quelle riscontrabili nel componimento "Vita Nova". Invero, direttamente connessa alle vicende dei Fedeli d'Amore, si svolse una cospicua parte della vita di Dante e di numerosi altri personaggi, noti nella letteratura italiana, tra i quali citiamo, solo per fornire qualche esempio: Jacopo da Lentini (metà XIII sec.), Pier delle Vigne, Guido Guininzelli (1240 c. – 1300 c.), Guido Cavalcanti (1260 c. – 1300), Lapo Gianni (1260c. – 1320c.), Dino Frescobaldi 1271 – 1316), Gianni Alfani (1270c. – 1340c.), Dante da Maiano, Cino da Pistoia (1270 – 1336), Cecco d'Ascoli, Bonagiunta Orbiciani, ecc.
Da poco meno di un secolo la voce "Fedeli d'Amore" comincia a trovare specificazione in qualche enciclopedia e in qualche volume di storia della letteratura solo per essere definita a livello di "setta ereticale" e segreta, dalla dubbia esistenza, senza ulteriori, maggiori particolari. Le stesse biografie di Dante non riferiscono nulla in proposito e il problema storico-letterario, lungi dall'essere più o meno indagato, è stato del tutto ignorato. Non sono, invece, ignorate alcune e piuttosto numerose questioni interpretative delle Opere di Dante. A tal proposito, anzi, quando le soluzioni proposte si rivelano palesemente insufficienti, la critica ufficiale si trae dall'imbarazzo, definendo semplicisticamente "oscure" le espressioni in esame, adducendo a sostegno dei miseri risultati il logoro argomento di presunti condizionamenti mistici e superstiziosi, tipici dell'epoca dantesca, senza mai ammettere alla base delle "oscurità" la benché minima relazione con l'esistenza, la concezione e le convenzioni dei Fedeli d'Amore. A dispetto dell'indirizzo biografico e storiografico corrente, una piccola, ma agguerrita, schiera di studiosi ha combattuto e combatte un'ammirevole battaglia con lo scopo d'informare l'opinione pubblica e, specialmente, il mondo culturale, circa la complessa vicenda dei Fedeli d'Amore e dei particolari rapporti intercorsi tra loro e Dante e la rilevanza di tali rapporti nella concezione e nell'Opera del Sommo Poeta. La "questione" dei Fedeli d'Amore fu posta per la prima volta all'attenzione della cultura letteraria da Gabriele Rossetti (1783-1854), il quale, a partire dal 1826, in numerose sue opere come, "Spirito Antipapale", "Il Mistero dell'Amore Platonico nel Medioevo", "Commento alla Divina Commedia" e "La Beatrice di Dante", sostenne la singolare e coraggiosa tesi che nel filone della poesia stilnovista venisse usato un gergo convenzionale che nascondeva le idee iniziatiche dei Fedeli d'Amore. A questa tesi, nella quasi generale indifferenza della critica accademica, si interessarono personaggi della statura di Giosuè Carducci, Francesco Perez, Giovanni Pascoli, Luigi Valli, Alfonso Ricolfi ed altri. In Francia, l'argomento ebbe una considerevole risonanza a seguito dell'Opera pubblicata da tale Eugenio Aroux il quale, sembra, come c'informa l'Alessandrini, essendo editore del Rossetti, si sia appropriato di un ennesimo studio, elaborato da quest'ultimo, giacente, per altro, in fin di vita a Londra, e lo abbia divulgato a proprio nome. Se le Opere rossettiane hanno il merito di aver posto organicamente il problema della "Questione dei Fedeli d'Amore", mettendo in evidenza anche numerosissimi e convincenti elementi, relativi all'esistenza, alle origini, e alla natura di quella Organizzazione, bisogna pur dire che, sebbene frammentariamente, qualche indizio di ricerca, ovvero di interpretazione originale, non soggiacente al conformismo imperante nella critica dantesca, si era già avuto fin dal 1700 in poi, specialmente in riferimento al personaggio di Beatrice, ad iniziativa di Anton Maria Biscione e di Ugo Foscolo (1778 – 1827), i quali, tutti, avevano in qualche modo percepito la natura simbolica di Beatrice. Ai giorni d'oggi, per merito di Luigi Valli, strenuo sostenitore e divulgatore delle tesi di Gabriele Rossetti ed arguto esegeta dell'Opera dantesca, nonché, per gli ulteriori approfondimenti svolti dal Ricolfi, particolarmente sulla cultura provenzale e sul complesso mondo delle Corti d'Amore, l'esistenza dei Fedeli d'Amore è un dato definitivamente acquisito. Tommaso Ventura, Mario Alessandrini e numerosi altri insigni studiosi, partendo dagli indirizzi indicati dal Valli, hanno continuato ai giorni nostri l'opera di informazione e di ulteriore chiarificazione della "questione". Purtroppo, c'è da dire che questi studi sono stati approfonditi da un punto di vista storico-letterario e non altrettanto da un punto di vista esoterico, il che, data la natura dell'argomento, avrebbe certamente accresciuto il nostro interesse. I contributi esegetici degli Autori fin qui menzionati e quelli di parecchi altri che, per economia di trattazione, non citiamo, consentono di collocare storicamente i Fedeli d'Amore tra le varie organizzazioni esoteriche, venute in esistenza verso la fine del Medioevo. Secondo alcuni studiosi, tra i quali per primo il Keller, i Fedeli d'Amore, come d'altra parte tutte le altre Organizzazioni simili e coeve, si rifacevano a precedenti modelli organizzativi, noti come le Unioni Culturali umanistiche, sorte in Roma intorno al II secolo a.C. Per altri, tra i quali possiamo ricordare Alfonso Ricolfi e Carlo de Ryski, i Fedeli d'Amore sarebbero fioriti in Provenza dando luogo a sodalizi fraternali a carattere neoplatonico-gnostico e antipapale. Presumendo la stessa origine provenzale e collegandone le ideologie anche ai locali fermenti cataro-albigesi, secondo altri studiosi, tra i quali René Guenon, i Fedeli d'Amore corrisponderebbero all'Associazione della Fede Santa che sarebbe un Ordine di filiazione templare, i cui dignitari portavano, oltre ai colori "bianco e rosso", propri dei Templari, il titolo di Kadosh, termine ebraico che significa "Santo", che, tra l'altro, nel XVIII secolo fu recuperato per designare un alto grado rituale massonico. Quali che siano le loro origini, tali Organizzazioni, come è facile immaginare, furono inevitabilmente definite eretiche dall'allora imperante Chiesa Cattolica Romana la quale in esse vedeva una possibile turbativa al suo dogmatismo e al suo monopolio culturale. I Fedeli d'Amore, in particolare, a causa della loro dottrina che li portava alla affermazione di alti valori umani, ad una concezione religiosa, ispirata alla purezza evangelica e contro il dogmatismo religioso, nonché, alla ricerca di un rinnovamento civile, erano fatalmente esposti alla incomprensione delle autorità cattoliche. Essi, dunque, per sfuggire alle persecuzioni dell'Inquisizione e al rogo, secondo la dotta esegesi intrapresa dal Rossetti, dal Valli, dal Ricolfi e dagli altri, avrebbero opportunamente velato i loro pensieri iniziatici con un linguaggio poetico a chiave segreta. Il linguaggio tipico degli innamorati, per il suo carattere universale, sarebbe stato ritenuto adatto alla bisogna. Ogni Iniziato sarebbe stato, quindi, obbligato a servirsi della poesia, la più raffinata possibile per trasmettere il suo pensiero. Gli studi svolti al riguardo, provano ampiamente l'esattezza dell'ipotesi. Il linguaggio amatorio a doppio senso, cioè usato in senso anfibologico, secondo alcuni, quasi a mò di gergo, ebbe origine in Provenza con il singolarissimo "Roman de la Rose", di Guglielmo de Lorris (Prima Parte:1234 c.)e di Giovanni di Meung (Seconda Parte: 1275-80), poco dopo la feroce persecuzione, promossa da Innocenzo III contro gli "eretici" di Alby, detti Albigesi. Dalla Provenza, il linguaggio d'Amore, divenuto caratteristica delle cosiddette Corti d'Amore, si diffuse in Sicilia. Qui trovò fertile terreno presso la corte di Federico II, favorito dalla benevola considerazione e dal magnanimo appoggio dell'onnipotente ministro Pier delle Vigne. Jacopo da Lentini (1240 c. – 1300 c.), nell'ambito della Poesia Siciliana, ne fu uno dei più ragguardevoli utilizzatori. Dopo la caduta in disgrazia di Pier delle Vigne, dall'ambiente svevo, la Corte d'Amore si trasferì a Bologna, dove il linguaggio d'Amore che, sotto le simboliche parole di "Rosa" o "Fiore", ecc., nascondeva il concetto della "Sapienza Santa", ebbe ad affermarsi prontamente per il decisivo impulso che gli dette il giurista e filosofo Guido Guininzelli (1240 c.-1300). Essendosi, tuttavia, eccessivamente stilizzato nelle formule sin qui usate dalla Poesia Siciliana e dal lucchese Bonagiunta Orbiciani, questo particolare linguaggio rischiava spesso di lasciar facilmente trasparire l'argomento iniziatico per cui doveva fungere da schermo. Pertanto, Guido Guininzelli, affermando che "ciò che 'om pensa non de' dire", mutò le "maniere de li piacenti detti de l'Amore". Il Guininzelli, dunque, mutava quello che taluno ha definito un "gergo", sostituendo i simboli precedenti "Rosa", "Fiore", ecc., ricchi di elementi sensuali, con un simbolo più degno: da quel momento, la "Sapienza Santa", o la "Sapienza Iniziatica" fu rappresentata da una donna angelicata, ricca delle più elevate virtù che, ciò non di meno, davanti al volgo e, soprattutto, davanti all'Inquisizione, conservasse nome e dimensione umana. Guido Guininzelli arricchì il vocabolario anfibologico in uso e definì con precisi significati convenzionali i nuovi termini, come per esempio: "Amore" per indicare l'amore per la "Sapienza Iniziatica", o la stessa "Sapienza Iniziatica"; "Donne" per indicare gli Iniziati; "Saluto" per indicare l'atto formale d'Iniziazione;
"Piangere" per indicare il simulare fedeltà alla Chiesa di Roma; "Pietra" per indicare la Chiesa corrotta; "Dormire" per indicare di essere nell'errore; e così di seguito. Ai nomi convenzionali di "Rosa", o di "Fiore" o di "Stella", ormai facilmente decifrabili, consigliò di sostituire il Nome proprio di una donna. Da ciò, per Guido Guininzelli la "Sapienza Iniziatica" si chiamò "Lucia", "Giovanna" per Guido Cavalcanti, "Beatrice" per Dante, "Selvaggia" per Cino da Pistoia, "Lagia" per Lapo Gianni, tanto per fare degli esempi. Naturalmente, tutte rappresentavano la stessa cosa. Sembra, dunque, legittimo attribuire a Guido Guininzelli, non solo il merito di aver promosso ed introdotto un linguaggio anfibologico a chiave segreta, più adatto a consentire lo scambio di idee tra i Fedeli d'Amore, ma anche quello di aver stimolato l'affermazione di una nuova maniera di esprimersi che diventava sempre più rilevante come manifestazione non solo d'arte ma anche linguistica in sé e che cominciò ad esser noto specificamente come "Dolce Stil Novo". Lo stesso Dante, riconoscendo al Guininzelli questi specifici meriti, in un sonetto di "Vita Nova" (Cap.XX), lo chiamò "il Saggio": "Amore e 'l cor gentile sono una cosa/ sì come il Saggio in suo dittare pone" e, ulteriormente insistendo nello stesso senso, nel De Vulgari Eloquaentia (I,15) lo esaltò chiamandolo "maximus Guido" e nel XXVI Canto del Purgatorio (vv.97-99) ebbe a definirlo: "il padre/ mio e degli altri miei miglior, che mai rime d'Amor usár dolci e leggiadre" Quando Dante Alighieri venne a contatto per la prima volta con i Fedeli d'Amore, la loro Organizzazione, da Bologna, si era da poco diffusa anche a Firenze, dove aveva trovato in Guido Cavalcanti la più bella espressione poetica e il più vigoroso spirito organizzativo. L'Organizzazione dei Fedeli d'Amore, come ci informa Luigi Valli, comprendeva sette gradi iniziatici in analogia con i sette cieli planetari e con le sette Arti Liberali. Le Iniziazioni avevano luogo a Pasqua (la Divina Commedia, non a caso, si svolge nell'epoca di Pasqua). Le espressioni "Terzo Cielo" (Cielo di Venere), "Terzo Loco" e "Terzo Grado" indicavano il terzo grado della gerarchia in cui si riceveva il "Saluto". Questo importante rito, simile ad una confermazione, consisteva nella vera e propria investitura a Fedele d'Amore e avveniva, di solito, all'epoca di Ognissanti. L'essenza della dottrina d'Amore è ben sintetizzata in una terzina del XXIV Canto del Purgatorio (vv.52-54) in cui Dante, rispondendo a Bonagiunta Orbiciani, diceva: "Ì mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, ed a quel modo/ ch'è ditta dentro vo significando". È la dottrina della Verità nel senso più elevato. È l'affermazione della iniziatica ricerca in contrapposizione con tutte le dottrine fideistiche e dogmatiche. Iniziato proprio da Guido Cavalcanti ai Misteri d'Amore, Dante seppe penetrare ed assimilare talmente la dottrina iniziatica che la sua presenza e la sua personalità s'imposero ben presto nella Organizzazione. L'Opera di Dante in cui, più che altrove, è evidente il riferimento ai Fedeli d'Amore è "Vita Nova". L'esame di quest'Opera, scritta parte in prosa e parte in versi, oltre a farci conoscere, un complesso ed importante periodo della vita del Sommo Poeta, con particolare riferimento al suo Amore, per Beatrice, ci consente anche di volgere lo sguardo su di uno spaccato, quanto mai vivo ed espressivo, della vicenda dei Fedeli d'Amore in Firenze, con i quali il Poeta fu in stretta relazione. Tenendo presenti le informazioni fin qui date sui Fedeli d'Amore, poiché in "Vita Nova" Dante descrive proprio i rapporti intercorsi con la loro Organizzazione, l'attenta lettura dell'Opera e il giudizio che se ne può trarre, non consentono di accettare la semplicistica definizione data al Componimento dalla critica letteraria accademica come di un ingenuo racconto d'amore giovanile, o come, recentemente la indica, da storico, Indro Montanelli: "una piccola e vaga autobiografia in cui sono notati solo - e per allusioni - gli episodi che sentimentalmente lo [cioè, Dante] toccavano" . Prima di diffonderci nell'esame dei suddetti rapporti intercorsi tra Dante e i Fedeli d'Amore, è opportuno intrattenerci brevemente sul principale personaggio del racconto dantesco e, cioè, su Beatrice. La Beatrice della "Vita Nova", come è stato significativamente sostenuto da preclari commentatori, quali per esempio: Anton Maria Biscione, Francesco Perez, Adolfo Bartoli, Giovanni Pascoli, Luigi Valli, ecc., va considerata come un'astrazione, un vero e prorio simbolo e, quantunque sull'identità di tale simbolo non tutti concordino, tutti convengono che esso trascende il comune significato della donna vera di carne ed ossa. Per quanto si tenti, Beatrice non può essere indicata se non con parole di significato generale, cioè, non si sa se abbia occhi neri, o azzurri; non si percepisce il colore dei suoi capelli; non ha alcuna fisionomia; il suo sguardo non è languido, né ardente, né altro; ella non si manifesta che ricca di qualità angelicate, come purezza e volto "color di perla" (Cap.XIX). Dante la definisce: "non figliola di uomo mortale, ma di deo" (Cap.II), "non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo" (Cap.XXVI), "cosa venuta/ da cielo in terra a miracol mostrare" (Cap.XXVI). Nata in cielo, ella è "venuta in terra a miracol mostrare", ella non fa tremare soltanto il cuore di Dante, ma il cuore di chiunque essa saluti: "ov'ella passa, ogn'om ver lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core..." (Cap.XXI). In contrasto con quello che si sà circa l'educazione femminile del tempo, Beatrice è "sapientissima" distributrice di dottrina, è la "gloriosa donna de la (mia) mente" (Cap.II), è "l'eterna Luce, che vista sola, sempre Amore accende" (Par.V). Davanti a lei che "saluta", "ogne lingua deven tremando muta/ e li occhi non l'ardiscon di guardare." (Cap.XXVI). A Beatrice, inoltre, è collegato il numero perfettissimo e misterioso "nove", quadrato del "tre". Beatrice, dunque, non è una donna.
L'insieme di tutte le caratteristiche della Beatrice di Dante ci permette di individuare il suo vero significato simbolico, facendocela identificare con la "Sapienza vera", la "Sapienza Iniziatica", piuttosto che con la "Fede", o con la "Grazia", simboli pretesi più appropriati da quella piccola parte della critica accademica che riesce a sottrarsi alla concezione della "Beatrice donna", identificata in Beatrice Portinari. Coloro che danno per storica Beatrice, basandosi sulle affermazioni di Giovanni Boccaccio e di Pietro di Dante, entrambi, per altro, Fedeli d'Amore, sono semplicemente vittime d'ingenuità. Se, infatti, da quelli fosse stata svelata la vera identità di Beatrice, sia la "Vita Nova", che la Divina Commedia avrebbero fatto la stessa fine del De Monarchia, che fu bruciato, senza dimenticare che un altro Fedele d'Amore, Francesco Stabili, detto Cecco d'Ascoli, per le sue temerarie concezioni, ritenuto eretico, fu arso vivo dall'Inquisizione. Chiarito il significato di Beatrice, si può, a questo punto, con sufficiente obbiettività, affermare che il sentimento che lega Dante a questo personaggio è di natura squisitamente intellettuale e, più che i sensi, o il cuore, coinvolge unicamente la mente. A questa conclusione, per la verità, non si perviene solo per forza logica, bensì, è lo stesso Dante che ci guida. Nella Canzone "E’ m'incresce di me sì duramente" (Rime XXIX, p.436), Dante ricorda il primo turbamento sentito per Beatrice e afferma che Beatrice agì su di lui incosciente, molto prima che si incontrassero fanciulli e precisamente, il giorno della nascita di lei: "Lo giorno che costei nel mondo venne/... la mia persona pargola sostenne/ una passion nova,/ tal ch'io rimasi di paura pieno;/ ch'a tutte mie virtù fu posto un freno/ subitamente, sì ch'io caddi in terra,/ per una luce che nel cor percosse...". Questa è la miglior prova a sfavore della realtà umana e storica di Beatrice. Infatti, se si vuole interpretare in modo letterale, non vi è chi non giudichi perfino sciocco il pensare che una neonata possa provocare tale passione, senza dire, poi, che il destinatario di tale passione sarebbe un "pargolo", in cui non si è formata ancora una coscienza. Non resta, dunque, che interpretare simbologicamente il passo e tradurre l'immagine in un concetto più coerente e, cioè, che il nascere di Beatrice corrisponde al raggio della Sapienza che giunse a Dante nell'età, simbolicamente infantile (nove anni) della sua Iniziazione ai Misteri dei Fedeli d'Amore. Quando, con l'Iniziazione, Dante ebbe un contatto più diretto con la "Sapienza Iniziatica", Beatrice, che la simboleggiava, gli si mostrò in "giovanissima etade", cioè bambina, perché Dante non l'aveva ancora approfondita e gli si mostrò vestita di rosso sanguigno a ricordo delle cruente persecuzioni di cui era stata vittima (Cap.II). La "Vita Nova", dunque, per la presenza di Beatrice, caratterizzata dal suo valore simbolico-iniziatico, per le implicazioni dell'Organizzazione iniziatica dei Fedeli d'Amore, è la storia della vita iniziatica di Dante. Con l'iniziazione, infatti, si cominciava una vita nuova. Il modo convenzionale in cui "Vita Nova" fu scritta non avrebbe impedito, come di fatto non impedì, ai Fedeli d'Amore, unici destinatari dell'Opera, di recepirne il profondo ed iniziatico significato. Ciò ci viene confermato dallo stesso Dante nel commento al sonetto "Con altre donne mia vista gabbate" in cui dichiara che un certo suo pensiero sarebbe stato comprensibile solo a chi fosse stato "in simil grado Fedele d'Amore" (Cap.XIV). Alcune Organizzazioni iniziatiche davano l'età di "tre" anni al primo grado; altre davano l'età di "nove" anni allo stesso grado.
Nella tradizione iniziatica questi numeri, come è noto, indicano stati di perfezione e, poiché con l'Iniziazione si perviene al primo gradino della perfezione, ecco spiegato l'uso di età infantili. Perciò Dante, secondo l'uso praticato dai Fedeli d'Amore, scrisse di avere "nove" anni quando si avvicinò a Beatrice. In "Vita Nova" il numero nove ricorre fatalmente nove volte e solo in particolarità che riguardano Beatrice. Dante meritò l'investitura a Fedele d'Amore solo dopo "nove" anni, naturalmente convenzionali, di noviziato. Come traspare dal racconto, l'investitura, simboleggiata dal "Saluto" che Beatrice, in presenza di due Fedeli d'Amore, per la prima volta indirizzò a Dante, ebbe carattere solenne: "…compiuti li nove anni... avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne e... mi saluto e molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L'ora che lo suo dolcissimo saluto mi giunse, era fermamente nona di quello giorno… " (Cap.III). Dante sottolinea allegoricamente l'importanza della investitura descrivendo una "meravigliosa visione" che ebbe in "una nebula di colore di fuoco, dentro la quale io discernea una figura d'uno segnore... e pareami… che mirabil cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste :"Ego dominus tuus". Nelle sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in un drappo sanguigno… la quale io guardando... conobbi ch'era la donna della salute, la quale m'avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l'una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e pareami che mi dicesse queste parole: "Vide cor tuum". E... pareami che disvegliasse questa che dormia e... le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. (E poco dopo) … la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna nelle sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo..." (Cap.III). Il significato di questa allegorica visione è chiaro all'interprete del linguaggio d'Amore: l'"Amore", che è il fine ultimo della "Sapienza iniziatica" e che Dante definisce "Dominus" suo, e che ha in braccio l'Organizzazione dei Fedeli d'Amore, involta in un drappo rosso, significante le persecuzioni e la rigenerazione, possiede a tal punto il cuore dell'adepto che lo fa simbolicamente mangiare alla stessa Organizzazione in segno di totale simbiosi spirituale.
Avvenuto questo pasto ideale, pregno di intensissimo significato esoterico, il "Dominus", piangendo amarissimamente, cioè simulando grande devozione alla Chiesa, si ritrae andandosene verso il cielo, luogo della suprema beatitudine. Investito Fedele d'Amore, Dante indirizzò, secondo il costume, a tutti i membri del Sodalizio il sonetto: "A ciascun'alma presa e gentil core" (Cap.III). Come si praticava fare col primo sonetto di ciascun Investito, gli risposero: Guido Cavalcanti, col sonetto "Vedeste, al mio parere, onne valore" (Cap.III); Cino da Pistoia, col sonetto "Naturalmente, ch'era ogni amadore"; Dante da Maiano, col sonetto "Di ciò che stato sei dimandatore". Di tutti questi Dante volle ricordarne solo uno, quello di Guido Cavalcanti, il capo dei Fedeli d'Amore di Firenze. Seguendo i metodi della Organizzazione, per sfuggire a persecuzioni inquisitorie, Dante si finse devoto ed ossequiente della Chiesa. Tale comportamento, però, non fu apprezzato e Dante, accusato di essere un seguace della Chiesa, fu messo da parte: “… E per questa cagione… quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina delle virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare" (Cap.X). Fu in questo periodo che una grave crisi si manifestò nell'animo di Dante. Egli sentì proprio in questo momento il maggiore bisogno di conforto da parte dell'Organizzazione ("Amore, aiuta lo tuo Fedele") (Cap.XII) e cercò di farsi perdonare con un'altra composizione: "Ballata i’ voi che tu ritrovi Amore/ e con lui vade a madonna davante,/ sì che la scusa mia, la qual tu cante,/ ragioni poi con lei lo mio segnore." (Cap.XII). Ma ne ottenne in risposta solo la conferma della condanna e dei rimproveri, sottoscritti proprio dal Capo del Sodalizio, Guido Cavalcanti, che gli indirizzò il sonetto "I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte/ e tròvoti pensar troppo vilmente:/ molto mi dòl de la gentil tua mente/ e d'assai tue vertù che ti son tolte./ …or non ardisco per la vil tua vita/ far mostramento che tu’ dir mi piaccia/..." (Valli, I, p.284). Dante fu, dunque, né perdonato, né riammesso, ma abbandonato a sé stesso, in balia di un angoscioso contrasto interiore di natura ideologica e sentimentale, tra Naturalismo e Misticismo cristiano. Accogliendo la Rivelazione quale complemento della forza conoscitiva naturale, egli decise di prendere "matera nova e più nobile che la passata" (Cap.XVII) e teorizzò la possibilità di dare alla "Sapienza Iniziatica" un carattere mistico che l'avvicinava alla Sapienza Evangelica, emancipatrice della individualità umana che un giorno Cristo aveva consegnato alla Chiesa e che questa tradiva per bassi interessi mondani opponendosi, anche aspramente, a chi volesse tornare a quella Sapienza Evangelica. Così, la sua nuova religione non fu basata solo sulla Fede, ma anche e soprattutto, sulla Ragione che guida l'uomo nella ricerca della Verità e lo tutela dalle false dottrine. Sicché, Dante, in piena libertà di coscienza, discusse i dogmi della Chiesa e ritenne in questo modo di dare giusto spazio alla "Sapienza Iniziatica". Convinto della giustezza del suo pensiero, Dante pensò di rivolgersi autonomamente agli Iniziati alla Fede d'Amore, prescindendo dai vincoli gerarchici vigenti nel Sodalizio e scrisse la Canzone "Donne ch'avete intelletto d'Amore/ i’ vò con voi de la mia donna dire" (Cap.XIX).
Per il suo alto contenuto, questa Canzone venne a porsi accanto a quella del Cavalcanti "Donna mi prega per ch'io voglia dire" e a quella del Guininzelli "Al cor gentil ripara sempre Amore". L'eco e il successo che ebbe la Canzone di Dante furono notevoli, tant'è che il Poeta fu non solo elogiato quale il più perfetto dei Maestri d'Amore, ma ritenuto degno di essere collocato in "Paradiso", cioè, in alto grado nella Organizzazione. Infatti, una Canzone recentemente scoperta, scritta da un ignoto Fedele d'Amore in risposta a quella di Dante, dice: "Poi ched egli è infra gli innamorati/ quel ch’n perfetto amor passa e più giova,/ noi donne il metteremmo in paradiso/ udendol dir di lei c'ha lui conquiso".
Dante, cosi, per soddisfare anche le tante richieste che gli pervenivano, sentì il bisogno di scrivere due Sonetti: "Amor e 'l cor gentil sono una cosa/ sì come il Saggio in suo dittare pone" (Cap.XX) e "Ne li occhi porta la mia donna Amore" per meglio illustrare la sua dottrina sulla natura d'Amore. La nuova ideologia contenuta nella Canzone "Donne che avete intelletto d'Amore" (Cap.XIX), integrata dai chiarimenti offerti con questi ultimi altri due Sonetti, scatenò immediatamente presso i Fedeli d'Amore un notevole fermento. Tutti i contrasti ideologici sulla dottrina d'Amore, fino a quel momento più o meno latenti e più o meno controllati, esplosero quasi contemporaneamente, mettendo in crisi la dirigenza di Guido Cavalcanti e, tenuto conto di tutte le diversità di temperamento e di cultura tra i vari membri, mettendo anche in serio pericolo la stessa esistenza del Sodalizio. Naturalmente, sorse subito contesa per il predominio tra i seguaci della tendenza "conservatrice", che faceva capo a Guido Cavalcanti e quelli della tendenza "innovatrice", che faceva capo a Dante. Qui vale la pena di riassumere brevemente i concetti principali delle due contrastanti teorie. Per la tendenza "conservatrice", la "Sapienza Iniziatica" era di natura razionalistica e non poteva essere commista ad alcunché di mistico, o di extra umano; la Chiesa era avversata in quanto tale e per la sua dottrina. Per la tendenza che si rifaceva a Dante, la "Sapienza Iniziatica" era circonfusa di misticismo e si fondava sia sulla Fede, che sulla Ragione, pur riconoscendo la profonda, irriducibile opposizione dei due termini; la Chiesa era da rispettarsi come organismo gerarchico e le si riconosceva la supremazia religiosa, ma la si osteggiava per la corruzione che la pervadeva; ond'è che, spogliata la Chiesa di ogni potere temporale e ristabilito l'Impero nella sua pertinente sfera di autorità, con la somma divisione tra potestà spirituale e potestà temporale, si sarebbero, finalmente conseguite nel mondo le condizioni essenziali per la felicità e la libertà del genere umano. Dalla piega che presero le dispute, Guido Cavalcanti, allora capo dei Fedeli d'Amore in Firenze, si rese conto che la tendenza dantesca andava prevalendo. Coerente con i suoi principi ed altero nella sua decisione, Guido Cavalcanti rinunciò alla sua carica e si ritirò.
L'eco del violento trauma che subì l'Organizzazione in questo particolare frangente è rilevabile nei due sonetti di Dante: "Voi che portate la sembianza umile" (Cap.XXII) e "Se' tu colui c'hai trattato sovente" (Cap.XXII). Il commento dello stesso Dante a questi due Sonetti ci fa sapere che essi furono scritti quando "colui che era stato genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch'era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale se ne gio veracemente" essendo, per altro, "bono in alto grado". Interpretando secondo il senso anfibologico convenzionale, si comprende come per "padre di Beatrice" debba intendersi il fondatore in Firenze del Sodalizio dei Fedeli d'Amore, il quale, in realtà non muore, ma "esce", bensì, "di vita", cioè, si allontana dalla verità della dottrina d'Amore. Pertanto, i due Sonetti e il loro commento introduttivo non possono avere altro significato se non quello di notificare le dimissioni di Guido Cavalcanti, fondatore e, in ogni caso, benemerito dell'Organizzazione, dal comando della stessa; come pure mettono in evidenza, con partecipe apprensione di Dante, la grave crisi in cui essa per questo evento era venuta a trovarsi. In queste circostanze, già così pregne di tensione, si inserì un ulteriore evento che, aggiungendosi al precedente, dovette dare a Dante un nuovo grande dispiacere. Una nuova tendenza dottrinaria andava, infatti, prendendo consistenza sotto la guida del giovane notaio Lapo Gianni de' Ricevuti. Essa sosteneva con mistica concezione, non essere sufficiente per la salvezza del mondo la semplice purificazione della Chiesa, ma essere indispensabile un totale rinnovamento civile e religioso, secondo lo spirito evangelico dei primi seguaci di Cristo. Dante, conscio della gravità del momento, rivolse, allora, ai due antagonisti il Sonetto "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io/ fossimo presi per incantamento/ e messi in un vasel, ch'ad ogni vento/ per mare andasse al voler vostro e mio..." (Rime XIV, p.427) in cui, per il bene generale del Sodalizio, proponeva un accordo per conciliare le opposte tendenze. Il rifiuto categorico di Guido Cavalcanti pervenne a Dante sotto forma poetica, come d'uso, col Sonetto "S'io fosse quelli che d'Amor fu degno,/ del qual non trovo sol che rimembranza,/ e la donna tenesse altra sembianza,/ assai mi piaceria sì fatto legno." (Rime XV, p.428). L'irreparabile era, dunque, avvenuto. Il Poeta ci informa (Cap.XXIII) di avere sofferto per "nove" giorni di una terribile malattia, aggravata, per altro, da terrificanti visioni preconizzatrici della "Morte di Beatrice". La Canzone "Donna pietosa di novella etade" (Cap.XXIII) ben esprime lo stato d'animo di Dante nella nuova situazione determinatasi. Nella Canzone riecheggiano i drammatici versi "Ben converrà che la mia donna mora" e "Morta è la donna tua, ch'era sì bella" (Cap.XXIII) a chiara testimonianza della gravità del momento. Ma, d'improvviso, un nuovo impulso volitivo pervase la mente ed il cuore di Dante. Preso da insospettata forza egli iniziò una paziente opera di ricostruzione. "Io mi senti’ svegliar dentro a lo core/ un spirito amoroso che dormia:/ e poi vidi venir da lungi Amore/ allegro sì, che appena il conoscia,/ dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»… " (Cap.XXIV) è il primo Sonetto che Dante scrive dopo questa grave crisi. Quasi a premiare tanta infaticabile iniziativa, qualche tempo dopo, Dante vide, come con i suoi stessi versi c'informa, passare innanzi a sé Giovanna, la donna di Cavalcanti, e Beatrice, "l'una appresso dell'altra" (Cap.XXIV), a significare il passaggio amichevole del comando dei Fedeli d'Amore in Firenze da Cavalcanti a Dante.
L'attività di Dante, quale capo, fu rivolta particolarmente alla riorganizzazione e alla migliore determinazione dei criteri operativi del Sodalizio. I risultati di questa operosa iniziativa dovettero essere più che buoni perché con i Sonetti "Tanto gentile e tanto onesta pare" (Cap. XXVI) e "Vede perfettamente onne salute" (Cap.XXVI), nonché, con la Canzone, restata incompiuta, "Sì lungiamente m'ha tenuto Amore" (Cap.XXVII), Dante esprime un particolare stato di conseguita intima felicità. Ma, contro ogni appassionato sforzo ricostruttivo di Dante, si posero le mille difficoltà costituite dalle grandi discordie politiche fiorentine, dalle non sopite polemiche tra i Fedeli, dalle crescenti pressioni clericali. In questo contesto, obbiettivamente complesso e difficile, di fatto, il Sodalizio dei Fedeli d'Amore cessò d'operare e si disgregò. Era, dunque, avvenuta la morte di Beatrice.
Fu certamente una fatale coincidenza la morte di Beatrice Portinari, avvenuta proprio in quello stesso lasso di tempo, ma il compianto manifestato da Dante va molto al di là di ogni ragionevole espressione di cordoglio per morte umana. La Canzone "Gli occhi dolenti per pietà del core" (Cap.XXXI) esprime il profondo abbattimento nel quale era caduto il Poeta e tutta la sua tristezza per lo scioglimento dell'Organizzazione: "Ita n'è Beatrice in alto cielo,/ nel reame ove li angeli hanno pace,/ e sta con loro, e voi, donne, ha lassate..." "...ma ven tristizia e voglia/ di sospirar e di morir di pianto...". Il Sonetto "Era venuta nella mente mia" (Cap.XXXIV) commemora, a distanza di un anno, il deprecato avvenimento della morte di Beatrice e con esso si conclude il primo periodo della vita iniziatica di Dante.
Dopo la "morte di Beatrice", Dante, tra il 1293 e il 1295, visse un periodo intenso di nuove e, a volte, penose esperienze che può essere indicato come quello del "deviamento amoroso". Dante, infatti, intravide la possibilità di dare soluzione ai suoi problemi spirituali mediante lo studio della Filosofia, che in "Vita Nova", nel Capitolo XXXV, è riconoscibile sotto il simbolo della "gentile donna giovane e bella molto" (Cap.XXXV) e mediante la pratica sapiente della Politica. Questo capitolo, in realtà, mette inconfutabilmente "Vita Nova" in relazione col “Convivio”, relazione che avrà ulteriori conferme, e che pone, conseguentemente, persanti dubbi circa la presunta epoca di redazione sia della prima che della seconda Opera dantesca, come la corrente critica storico letteraria pretende ancora oggi. (Vita Nova , 1293; Convivio 1307 c.) Il matrimonio con Gemma Donati, intanto, consentì al Poeta di avere l'esperienza di una famiglia, mentre l'ingresso nella Corporazione dei Medici (Cerusici) e Speziali gli permise di partecipare alla elezione per le cariche comunali. Ben presto Dante s'avvide delle difficoltà di conseguire utili risultati e, nonostante le sapienti considerazioni che stava elucubrando nel Convivio, deluso e amareggiato dagli eventi, si convinse della necessità di riprendere la via della "Sapienza Iniziatica", quale l'unica capace di guidare sicuramente alla meta della Verità. "Lasso ! per forza di molti sospiri", fu questo il nuovo esordio di Dante nella ripresa della via iniziatica (Cap.XXXIX). Nell'ora "nona" di un giorno imprecisato, Dante, con rinnovato entusiasmo, riprese a cantare il nome e le virtù di Beatrice. Dante, allora, sentì la necessità di ritrattare quanto, nella speranza vana di risolvere ogni problema, andava scrivendo nel Convivio. A tal fine scrisse il sonetto "Parole mie che per lo mondo siete" (Rime XLIII, p.450), in cui, alludendo alla Filosofia, rivolge alle proprie parole l'esorazione: "Con lei non state, ché non v'è Amore". A questo Sonetto ne seguì subito un altro "O dolci rime che parlando andate" (Rime XLIV, p.451) nel quale, confermando il suo ravvedimento, Dante esortava ad andare oltre la Filosofia, che, secondo Lui, è solo il primo gradino per arrivare alla "Sapienza Iniziatica". Rivolgendosi, poi, ai pellegrini che attraversavano Firenze per raggiungere Roma, in occasione del Giubileo indetto da Bonifacio VIII, col Sonetto "Deh pellegrini che pensosi andate" (Cap.XL) compì notevole opera di proselitismo. ( In questo Capitolo, per altro, si ha la prova che la “Vita Nova” era ancora in corso di redazione nel 1300, come, del resto, ebbe ad intuire anche il Pietrobono. [Cfr. F.Biondolillo, p.26]) Integrò, quindi, l'opera ricostruttice, riorganizzando i superstiti Fedeli d'Amore e indirizzando loro nuovi versi. Con il Sonetto "Oltre la spera che più larga gira" (Cap.XLI), ultimo della raccolta di "Vita Nova", Dante dichiara e conferma di essere definitivamente tornato alla "Sapienza Iniziatica", alla sua Beatrice. Comincia, a questo punto, un nuovo periodo nella vita iniziatica del Poeta. Egli dice di aver ricevuto una "mirabile visione" a seguito di che promette di non più parlare di Beatrice, finché non sarà in grado di farlo nel modo più degno (Cap.XLII). Questo è il passo che mette in indiscutibile relazione, evidenziandone l'intima connessione, la "Vita Nova" con la Divina Commedia. Sotto l'impegno di questa solenne promessa, Dante concepisce la grandiosa idea della Commedia. Quando, finalmente, è pronto al cimento, sia pure conservando alcune forme care ai Fedeli d'Amore, abbandonando le esaurite forme gergali convenzionali e sostituendole con un simbolismo molto più profondo ed estetico, Dante supera con una nuova originale concezione tutte le contraddizioni del suo passato e lascia il suo genio libero di spaziare nell'infinito poetico con l'unico scopo di affermare la Verità Suprema: la "Sapienza Iniziatica", il trionfo di Beatrice. Nell'affermazione di una religione tutta sua, Dante cercò di accordare, nonostante la loro radicale inconciliabilità, la Fede con la Ragione. Teorizzò la dottrina della divisione dei poteri per cui allo Stato competeva la piena giurisdizione temporale e alla Chiesa l'apostolato spirituale. Nella Chiesa, profondamente odiata per la corruzione che la pervadeva, Dante non volle vedere per forza un nemico, bensì la depositaria di quella evangelica Verità che attraverso il Sacrificio del Cristo aveva affermato l'emancipazione dell'individuo nella fratellanza e nell'amore universali. Sul carro trionfale della Chiesa, immagine con cui si conclude la Commedia, supremo compendio della concezione iniziatica del Sommo Poeta, Dante pose, allegoricamente, radiosa nella sua emblematica significazione, Beatrice al fine di coronare e di suggellare il suo sforzo di Iniziato in nome della "Sapienza Iniziatica". Grande nella sua visione, sublime nello sforzo di rappresentarla, unico nella espressione poetica raggiunta, Dante più che il Vate dell'umano futuro progresso e più che il precursore del Rinascimento, dacché tenne sempre il suo sguardo rivolto al passato, può essere ben ricordato come colui che meglio di ogni altro chiuse il Medio Evo. Il suo lascito ai posteri, tuttavia cospicuo, più che la sua concezione iniziatica, più o meno influenzata dai Fedeli d'Amore, furono l'incomparabile poesia e l'unificazione della lingua italiana.
Conferenza tenuta all’Or. di Napoli, presso la R.L. Francisco Ferrer n. 213, il 2 marzo 2012 E.V.

Luigi Sessa

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